Eccessivo, ridondante; ma anche geniale, visionario, surrealista. Ossessionato dalla cultura pop, marca espressiva di tutta la cultura contemporanea, come dalla perfezione estetica, che ricrea entrambe negli scenari apparecchiati ad hoc, nei quali la visione d’insieme si scompone nella cura maniacale per i dettagli, in un barocchismo linguistico – visivo che o si ama o si odia.
LaChapelle non è un fotografo da mezze misure. Ben oltre la fotografia di moda e i suoi clichès, che pure ha ampiamente praticato nelle numerosissime collaborazioni con riviste come GQ, Vanity Fair, Vogue, Homme, Rolling Stones, la sua è vera e propria arte dell’immagine, che vive nello spazio limite che l’artista apre fra banalità dello stereotipo pop e genialità dell’invenzione ironica e surreale. Non a caso ha esordito negli anni Ottanta grazie al padrino dell’arte pop all’apice della sua visione commerciale quale era il grande Andy Warhol.
Piaccia o non piaccia, David LaChapelle è uno dei più celebri fotografi contemporanei.
Lo potete vedere a L.U.C.C.A. Center for Contemporary Art fino al 4 novembre 2012 in una mostra che raccoglie ben 53 scatti, scelti fra i principali nuclei tematici della sua produzione, raccontata in 10 serie, fra cui Star System, Deluge (Awakened), EarthLaughs in Flowers, After the Pop, Destruction and Disaster, Excess, Plastic People, Dream evokes Surrealism, Art References e Negative Currency.
Anche se oggi la sua produzione fotografica si è fatta più impegnata – secondo lo spirito dei tempi – e più raffinata – in un abile gioco di riferimenti alla cultura classica – la sua produzione più interessante si ritrova nei ritratti delle celebrities. In queste opere la verità dei personaggi si fa funzionale ad una visione che spesso va oltre il limite della spregiudicatezza e della provocazione, e tocca momenti di invenzione geniale.
Bill Viola è uno dei più grandi artisti contemporanei. Le sue opere video, oggi nei maggiori musei del mondo, rispecchiano una visione intrisa di spiritualità profonda, accompagnata dalla grandissima abilità tecnica nella difficile pratica della videoarte. Lo abbiamo ascoltato parlare in una lecture che l’Università Bocconi gli aveva riservato in occasione dell’apertura della grande mostra antologica che Villa Panza gli dedica fino al prossimo 28 ottobre. Parlando di fronte ad un’aula gremita di studenti, l’artista americano si è soffermato a spiegare il significato dell’essere artisti. Abbiamo riportato alcuni tratti salienti di questa conferenza, in cui racconta il difficile compito degli artisti, offrendo una lezione antitetica rispetto a quella che ci hanno proposto in questi anni nomi di successo come Damien Hirst e i suoi numerosi imitatori.
La vita è un dono e l’arte è imparare a donare e a ricevere.
In questa conferenza non parlerò di mercato dell’arte, né di questo momento particolare in cui l’arte vale centinaia di milioni di dollari, a causa del modo in cui il sistema economico si è costituito, fino al punto in cui l’arte volta le spalle agli stessi artisti che l’hanno creata. In questa conferenza voglio parlare in modo particolare agli studenti, poiché il momento in cui siete, ovvero all’inizio della vostra vita nel mondo, e’ molto importante, anche se queste mie parole non sono destinate solo ai giovani, ma a tutti gli artisti di tutte le età, dai venti agli ottanta anni. Come studenti vorrei che innanzitutto foste consapevoli che dentro di voi abita un dono, e che vivrete in compagnia di esso per tutta la vostra vita: questo vi darà ispirazione, vi aiuterà, e se non lo tratterete nel modo giusto vi farà del male. Altra cosa importante su cui vorrei soffermarmi è questa: il principio del dono è una delle condizioni fondanti di tutto quello che siamo come uomini. Ogni persona che voi incontrerete nel corso della vostra vita, e la stessa ragione per cui siamo qui adesso, è che qualcuno ci ha dato un aiuto nel passato. Sono qui oggi e posso fare un gesto semplice come il mettermi gli occhiali, soltanto perché mia madre mi ha insegnato a nutrirmi quando ero un neonato. Per questo motivo dovrete imparare ad essere molto attenti quando qualcuno vuole darvi qualcosa, perché le condizioni per ricevere un dono non si verificano sempre.
La missione dell’artista: portatore di una visione dell’umanità.
La ragione più semplice su cui si basa il mio successo come artista è nell’uso che ho fatto non tanto della testa ma del cuore. Il cuore conosce la differenza fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; il cuore ci insegna a distinguere ciò che è bene e ciò che è male. Fate attenzione ad ascoltarlo e a sentirlo. L’arte non è un gioco in cui è importante chi riesce ad essere l’artista più furbo, più innovativo, disturbante, più ricco e di successo: questo ha a che fare con i prodotti del mercato, ma non con il fare arte. L’arte è qualcosa che ha che fare con l’essere onesti e profondamente autentici di fronte a se stessi. Quando nessun altro vi guarda, voi fate il vostro compito in nome di una guida che è qui, (e fa cenno a cuore ndr) e che è al di sopra di voi (alza gli occhi al cielo ndr).
E poi mi rivolgo ancora una volta soprattutto ai giovani quando dico che la prima condizione per fare arte è la consapevolezza che questa è una pratica dotata di una grande serietà, e che ha una storia molto lunga. Alcune guerre sono state combattute sulle immagini, alcune persone sono morte su di esse, altre sono state salvate grazie alle immagini. Come artisti dovete essere consapevoli del vivere in un momento particolare dei nostri tempi e che per questo siete destinati ad essere portatori di una visione: voi sarete i portatori di una visione dell’umanità, funzione dell’artista che risale agli inizi della civiltà umana.
Le cose vengono tutte dall’essere profondamente voi stessi in un punto particolare del momento storico in cui siete e dal vostro essere senza protezioni a più livelli di fronte al presente: è da qui che vengono i capolavori. I capolavori non vengono mai fuori da un’idea furba, ma trovano la loro base nella lotta, nel dolore, nella fatica del provare e riprovare di nuovo, fino a quando l’opera non funziona. Al termine di questo processo difficile qualcosa viene fuori, e molto spesso tu stesso non sai neppure da dove viene quello che hai realizzato.
Parole di Bill Viola, testo riportato e tradotto da Glenda Cinquegrana
Silenzio. Nello spazio vuoto e bianco del museo, risuona il rintocco di un metronomo, i cui battiti scandiscono i secondi di un tempo che sembra lunghissimo. Gli occhi, che sono chiusi, intravedono sotto le palpebre la luce della stanza, nella quale presupponi ci sia il movimento dei visitatori; le orecchie, invece, restano racchiuse in una cuffia che ti impedisce di sentire null’altro se non il battito dell’orologio e il rumore del tuo respiro.
Questa è la sensazione che ha chi partecipa alla sessione della performance di Marina Abramović: ovvero quella, piacevole o disturbante che sia, di essere completamente consegnato a te stesso, al proprio io, alle sensazioni recondite e alle paure inconfessate, e contemporaneamente di essere offerto in pasto al pubblico, sotto forma di living sculpture. Dove tu, fragile di fronte a te stesso, sei in quello stesso momento oggetto attenzione da parte dei visitatori, che non solo ti possono guardare, ma perfino scrutare, se vogliono, da un binocolo che si trova sul ballatoio del PAC.
Ecco in che cosa costituisce il Metodo Abramović per un partecipante alla performance che è in corso in questi giorni al PAC fino al prossimo 10 giugno, nella quale l’artista serba, vera madrina dell’arte di performance internazionale, consegna l’eredità del suo lavoro performativo degli ultimi anni. In questa occasione l’artista sperimenta in modo ancora più profondo e cosciente l’importanza del ruolo del pubblico nella performance.
The Abramović Method nasce da una recente consapevolezza raggiunta da Marina a seguito dell’estenuante sessione di 75 giorni di performance, intitolata the Artist is present, da lei conseguiti al MOMA di New York, nella quale essa ha affrontato quotidianamente per sette ore il pubblico del museo, che, seduto davanti a lei, era chiamato ad interagire con l’artista, a sua volta seduta dall’altro capo del tavolo. In questa ultima opera l’artista prosegue lungo la direzione della concettualizzazione della performance: in the Abramović Method essa non vi partecipa attivamente, lasciando che pubblico, sia esso quello attivo, ovvero dei partecipanti, sia esso quello passivo, fatto di chi vi assiste, ne costituisca quasi il solo elemento fondamentale. Il secondo strumento dell’azione performativa è rappresentato dagli oggetti che si trovano negli spazi del museo, strutture minimali leggere come gabbie, sedie e giacigli di legno, concepiti sotto forma di sculture di minerali, che fungono da catalizzatori di un corto circuito energetico fra attori e spettatori.
In questo articolo vi racconto la mia personalissima esperienza a The Abramović Method. In un pomeriggio di un giorno feriale mi trovo a far parte del pubblico della performance, che è formato da una ventina di persone fra visitatori e partecipanti, causalmente riuniti per l’occasione, e seduti nella sala del PAC davanti allo schermo. Marina parla attraverso il video, e chiede ai performer di cederle due ore del loro tempo, in cui, in base al contratto siglato con lei, il loro compito, semplice e al tempo stesso difficilissimo, sarà quello di affrontare se stessi, trovarsi davanti al proprio io al di là della banalità del quotidiano: quindi, di vedere con gli occhi chiusi ciascuno il proprio stato di coscienza, e di sostarvi per un tempo sufficientemente lungo. Il tutto sotto gli occhi dei visitatori curiosi. Lo scopo viene realizzato tramite la messa in atto di una forma di deprivazione sensoriale, forma di isolamento dell’individuo, calata nella pratica in tre posizioni base del corpo umano, ovvero quella in piedi, quella da distesi, a quella da seduti.
La performance sembra lunghissima. Il tempo, scandito dai rintocchi del metronomo, durante il quale non puoi che chiederti che cosa stia accadendo fuori, sembra non passare mai, mentre sei isolato e obbligato a non muoverti. Solo di fronte ai tuoi pensieri, mentre intuisci che gli spettatori si trovano davanti a te. Una sensazione difficile da paragonare ad altre, vicina ad una forma di meditazione, cui si somma il brivido della consapevolezza di essere in quel momento parte di uno spettacolo.
Una meditazione che diventa condizione difficile perché è obbligata in limiti precisi di spazio e tempo: perché non puoi muoverti o andare via, o rompere l’isolamento, perché hai firmato un contratto con Marina; e mentre senti il rumore dei secondi che passano, ti trovi ad affrontare il limite della tua volontà, combattuta fra il resistere e il liberarsi. Dove l’unico momento di pausa in questo ascoltare il flusso di coscienza è dato dal tocco alla spalla delle assistenti, che ti conducono gentilmente e freddamente alla prossima posizione.
Il tempo appare passare immobile ed in modo immisurabile. Al termine delle due ore, quando riprendi pienamente coscienza di te collocato nello spazio del museo, è difficile capire quello che hai percepito tu e quello che ha visto il pubblico che avevi di fronte. Impossibile poi è confrontare con gli altri partecipanti le esperienze che ciascuno ha vissuto: tutto ciò che è stato performance è stato strettamente dipendente dall’hic et nunc del momento, dal tuo stato d’animo e da una serie di variabili imprevedibili, quali la quantità di pubblico presente, e il tuo stato fisico e mentale.
Assieme al bagaglio di se stesso, ciascuno è stato un’opera unica e irripetibile. E per averci dato questa occasione dobbiamo ringraziare la grandissima Marina.
Al Palazzo delle Stelline a Milano sono in mostra, dal 13 marzo al 17 giugno 2012, una quindicina di opere dell’artista sudafricana Marlene Dumas: l’esposizione comprende nuclei di opere della sua produzione più recente, di cui alcune appositamente realizzate per lo spazio dell’ex collegio delle orfane delle Stelline, altre tratte dalla mostra londinese intitolata Forsaken e altre che sono ispirate a personaggi che per l’artista incarnano l’identità italiana, fra cui Pierpaolo Pasolini, e l’Anna Magnani di Mamma Roma. Nella mostra l’artista, distaccandosi dall’erotismo declinato al femminile che ha caratterizzato la sua produzione più celebre e richiesta, approfondisce il tema della sofferenza e dei destini ad essa legati, sintetizzati nell’immagine iconica del Cristo Crocifisso.
Il talento dell’artista olandese è innegabile ed evidente nella capacità di dipingere con pennellate sottili, che ricordano quasi più la tempera che l’olio vero e proprio, in i cui pochi tratti, di matrice espressionista, riescono a riassumere tutti i caratteri di una scena o di un personaggio, accostando colori opposti o complementari con grande abilità e destrezza. In queste opere il lavoro pittorico è costruito nel contrasto fra i colori scuri, bitumosi, e le trasparenze sottilissime, dove il colore persegue il raggiungimento di una fortissima sintesi espressiva.
Eppure la mostra, che è incentrata su nuclei diversi, appare disorganica e priva di un centro concettuale forte, concepita come è tramite l’accostamento di gruppi di opere diverse, in cui spiccano alcuni momenti pittorici felici sul progetto visto nella sua globalità: soprattutto i ritratti di piccolo formato, e il nucleo della opere tratte da una serie di immagini dell’archivio dell’ex collegio delle orfane. Bello il piccolo dittico Three Night e Three Day, che rappresenta il chiostro delle Stelline di notte e di giorno, e le due pitture che tratteggiano due orfane in mantello nero, che si stagliano sul fondo fatto di pennellate grigie e scure.
Proseguendo lungo la mostra, il tema visivo del Cristo Crocifisso diventa grido ripetuto in modo ossessivo: il Cristo in croce, simbolo dell’abbandono al momento della morte dal Dio-padre, cui si ricollega il grido dell’Anna Magnani, è ripetuto tante volte da perdere di potenza semantica; le immagini dolenti della Winehouse, e quella di Etta James con la bocca dischiusa in un canto disperato, cui è vicino concettualmente il quadro che rappresenta due donne abbracciate in un gesto materno di dolore, sono espressione femminili della sofferenza forti, ma isolate; il volto di Pasolini e quello di sua madre, l’angelico ovale del viso del Cristo del Vangelo Secondo Matteo, sono sparsi nella mostra senza la costruzione di un gioco di rimandi sostanziali.
Grande l’artista, ma per goderne appieno aspettiamo la sua prossima mostra.
Non sapremo mai chi è questa donna che culla un parente ferito, ma insieme diventano l’immagine vivente del coraggio delle persone comuni che hanno contribuito a creare un capitolo importante nella storia del Medio Oriente. Con queste parole il presidente della giuria del World Press Photo, Aidan Sullivan, ha giustificato la scelta della giuria di quest’anno di premiare la fotografia del giovane fotografo spagnolo Samuel Aranda.
L’immagine del fotoreporter non è altro che l’incarnazione, calata nel contesto del mondo arabo di oggi, della celebre posa della Pietà cristiana. La famosa immagine, cara all’iconografia dell’arte cristiana, da Michelangelo che ne fece la sua ossessione plastica, a Bellini, fino a Rubens e Ribera, è un soggetto fondamentale per decifrare l’arte antica cristiana. Ma non solo. E’ anche il soggetto iconografico ricorrente con cui suole confrontarsi molta arte contemporanea, in fotografia – basti pensare ai recenti scatti di Serrano – e nell’arte di performance: tutti ricordano la celebre azione di Marina Abramović, in cui l’artista abbracciava il corpo del compagno Ulay.
Un’immagine iconica prediletta dagli artisti perché simbolo di amore, di compassione, e incarnazione visiva suprema del dolore, di chi piange la morte di un una persona amata o di una fede amorosa in qualcuno, che poi è tragicamente finita. Dove il soggetto può tingersi anche di elementi politici qualora il Cristo assuma le vesti di un eroe vinto, portatore di una verità scomoda per l’autorità, affermata sino al costo di perdere la vita per essa. Entrambe le sfumature di significato si trovano nella foto di Samuel Aranda: il vinto è un ferito negli scontri con l’autorità rappresentata dal governo yemenita, caduto sotto i colpi della violenza bruta che questo applica per affermare una volontà cieca e tirannica. E una donna lo abbraccia in una vera e propria deposizione, consolandolo dalla sofferenza, e forse dalla morte che lo attende.
Dove lo scatto, è inutile precisarlo ancora una volta, non è il frutto di un set pensato dall’artista fotografo per raccontare una sua visione del mondo, ma scaturisce dell’abilità del reporter nel catturare l’immediatezza di un momento, raccolto nella realtà vera della rivoluzione yemenita. Dove la forza e l’efficacia comunicativa dello scatto di Aranda risiedono nella capacità di rappresentare la realtà attraverso lo strumento del topos visivo, che ha il potere supremo della facile intelligibilità, della fortissima fascinazione simbolica, e di lasciare una traccia nella memoria ben più lunga di qualunque altra immagine. Se la donna in questione, poi, porta il velo nero sugli occhi, questa caratteristica fa sì che essa venga immediatamente identificata come araba. Solo così una foto diventa un simbolo del dolore e del sacrificio del popolo arabo nel suo cammino di emancipazione. Solo così un’immagine è capace di fare il giro del mondo come ha fatto la foto vincitrice dell’anno scorso, il ritratto di Bibi Aisha, la ragazza cui era stato tagliato il naso dai talebani, o come l’indimenticabile foto del 1972 di Nick Ut della bambina vietnamita nuda in fuga dal napalm dei soldati americani.
Se poi, osserviamo la foto con attenzione notiamo che la sua forza risiede non solo nel potere documentario, ma nel suo punto di vista quasi definibile sottilmente artistico: il fotografo non solo è stato testimone di uno spaccato di realtà, ma non tralascia la sua personalissima visione. Che è cristiana, che ha l’occhio di un occidentale su una scena di umanità comune. In altre parole, attraverso uno sguardo che appare parziale, il fotografo – artista ci regala un’unica ed irripetibile immagine di Pietà Musulmana e di una madonna coperta di un velo nero. Sarà per questo motivo che ricorderemo per lungo tempo questa immagine come una grande opera d’arte.
La Natura come non l’avete mia vista, anzi come neanche pensavate potesse essere. Una sinfonia fatta di moltissimi elementi diversi all’interno di una visione perspicua del dettaglio, la cui importanza si fa fondamentale per ricostruire la visione di insieme. Dove l’insieme è il paesaggio, secondo una visione della natura che se da un lato ricorda la prospettiva scientifica dei vedutisti del Settecento, come Canaletto, dall’altro è anche una visione poetica del paesaggio. Quale paesaggio? In questo caso facciamo riferimento non alla Venezia del Settecento, nel suo febbrile rincorresi di attività produttive sullo sfondo dell’incantevole città lagunare, ma all’America delle Montagne Rocciose, quella della Monument Valley ed il Grand Canyon, o del Parco di Yosemite in California: è un paesaggio questo, che, per le sue caratteristiche, esprime forza, potenza, storia millenaria e che per noi europei incarna le caratteristiche proprie dell’America. La bellezza è tutta qui in uno scatto fotografico che, realizzato con un uso magistrale del bianco e nero, che si esprime in tutte le sue possibili gradazioni di colore, è lo strumento per fare di questa natura uno spettacolo di perfezione e purezza.
Questi sono gli elementi fondamentali che sono alla base dell’arte di Ansel Adams, uno dei maestri indiscussi della fotografia storica americana, assieme ad Edward Weston o Alfred Stiegliz, fra i primi a sperimentare le potenzialità della macchina fotografica per raccontare il mondo e le sue forme. A Modena si è appena chiusa la mostra a lui dedicata a presso la Fondazione di Fotografia. Si è trattato di una delle più importanti rassegne a livello europeo dell’opera del fotografo americano, capace di raccoglie un corpus rappresentato da 70 opere, grazie alla collaborazione eccellente con il trust americano dell’artista, e con alcuni collezionisti europei, e i galleristi americani che rappresentano l’artista.
L’esposizione rivela l’eccezionale capacità tecnica del fotografo, peraltro inventore di una tecnica fotografica chiamata sistema zonale, che, sulla base di uno studio delle modalità della luce di impressionare la pellicola, permetteva di mettere a fuoco punti diversi dell’immagine fotografica, e quindi, di cogliere la natura del paesaggio in tutte le sue più dettagliate sfumature. Queste gli permisero di fornire un ritratto del paesaggio americano cui l’occhio del fotografo guarda rappresentando in modo analitico ogni sua piccola parte, fino alla determinazione del tutto. E dove la visione di insieme culmina sempre nella rappresentazione scenografica della wilderness tipica della grande Natura americana.
Le sue doti tecniche furono poi funzionali alla creazione di un movimento chiamato gruppo f/64 che, assieme all’appoggio di Edward Weston e Imogen Cunningham, si faceva promotore, di contro al pittorialismo dominante, di una straight photography, ovvero di una fotografia intesa quale strumento di aderenza perfetta alla realtà. Infine, il suo profondo rigore morale lo spinse a farsi portatore di un corretto atteggiamento di rispetto ecologista nei confronti di quel paesaggio americano che aveva profondamente conosciuto, esplorato, guardato ed amato.
Nella fotografia Robert Mapplethorpe perseguiva la ricerca della purezza estetica e il rigore formale. In altre parole la perfezione. Ovvero, tutto quello che non c’è nella vita reale. E in particolare nella sua, una vita vissuta nella New York trasgressiva degli anni Settanta e Ottanta, in cui l’arte coincideva con l’esistenza condotta lungo i limiti della sperimentazione sessuale e delle droghe, in un ambiente in cui si mischiavano artisti, musicisti ad attori teatrali, di film pornografici e di performance. E dove tutto accadeva su un palcoscenico creativo d’eccezione quale era quello della metropoli newyorchese fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, fucina creativa in cui convivevano i New Dada di Rauschenberg e Andy Warhol con la Factory, i Velvet Underground e i Talking Heads, la street-art in chiave pop di Keith Haring e quella in versione pittorica post-moderna di Jean-Michael Basquiat. Leggi tutto “Sex and the city: Mapplethorpe in mostra a Milano”
Chi non ha visto l’anno passato l’immagine di Bibi Aisha, la diciottenne afgana cui per la legge talebana è stato tagliato il naso dal marito per essere fuggita dalla casa dello sposo che la maltrattava? Una fotografia che, pubblicata sulla copertina del Time, ha incarnato la missione americana di esportare libertà e democrazia nel mondo. Quella foto, scattata dalla fotografa sudafricana Jodi Bieber ha vinto il World Press Photo 2011, il più prestigioso premio dedicato al fotogiornalismo internazionale di razza, ovvero quel giornalismo capace di rappresentare un problema, una situazione o evento di grande importanza giornalistica, e fa questo in un modo che dimostra un eccezionale livello di percezione visiva e creatività. Una giuria di esperti sceglie ogni anno un’immagine capace di sintetizzare una storia, di raccontare l’attualità attraverso la forza testimoniale dell’obiettivo fotografico. Dove la perspicuità dell’immagine è funzionale a mettere in atto una riflessione profonda sul mondo che viviamo. Un premio prestigioso che, nelle sue ultime edizioni, è sempre più in bilico fra giornalismo e arte.
In effetti a guardare le immagini dei fotografi vincitori, che sono in mostra fino al 4 gennaio 2012 al PAN di Napoli, viene da chiedersi dove sia il confine fra la fotografia d’arte e quella documentaria.
Se già nel 2009 aveva vinto una prospettiva vicina a quella artistica, con il conferimento del primo premio a Piero Masturzo e alle sue immagini dotate più di perfezione estetica che di immediatezza documentaria, quest’anno è forte fra i premiati la prospettiva del fotogiornalismo classico, quello il cui imprescindibile è l’intreccio fra rilevanza degli eventi e forza del racconto contenuto nell’immagine. Eppure il confine fra arte e documentazione, vuoi per i mezzi che spesso sono gli stessi, vuoi per la cultura fotografica ampiamente circolante, appare sempre più labile: nelle immagini dei cinquantacinque fotografi vincitori, racchiuse nelle nove sezioni, Vita quotidiana, Protagonisti dell’attualità, Spot News, Notizie generali, Natura, Storie d’attualità, Arte e Spettacolo, Ritratti e Sport, la sovrapposizione fra funzione documentaria e visione artistica è costante.
Ad esempio non possiamo non notare la prospettiva da genere classico del ritratto nelle immagini di Andrew McConnell, primo premio nella categoria ritratti. Questi, per documentare la situazione di vita del popolo Saharawi, in costante lotta per l’indipendenza dal Marocco nelle ultime colonie, mette i suoi protagonisti in posa statica nelle ultime postazioni nel deserto ala ricerca dell’armonia compositiva. La foto d’arte riecheggia nelle immagini di Amit Sha’al, primo premio per Arti e Spettacolo, e la sua scelta di raccontare la città di Israele che si avvale della sovrapposizione di foto d’archivio sulle location originarie. Nella serie intitolata Altneuland, uno scatto del Muro del Pianto nel 1967, perfettamente sovrapposto alla visione attuale, non puà non risentire della lezione concettuale del fotografo americano degli anni Sessanta Kenneth Josephson.
Se nel 2009 il primo premio per People in the News fu vinto da un giovane fotografo italiano, Piero Masturzo, – che per rappresenta la critica al regime in Iran, aveva catturato le urla delle donne sui tetti di una Teheran affascinante quanto magica e di notte e di stelle – quest’anno fra i premiati si trova un gruppo nutrito di fotografi nostrani: Fabio Cuttica, Davide Monteleone, Riccardo Venturi, Massimo Berruti, Marco Di Lauro, Ivo Saglietti, Daniele Tamagni, Stefano Unterthiner. Il più estetico è certamente il lavoro di Venturi, primo premio nella sezione Notizie Generali, che cattura un incendio in un antico mercato di Haiti post- terremoto, in un bianco e nero saturo e profondissimo che risente della tradizione della fotografia italiana d’arte sensibile ed evocativa – per capirci di un Mimmo Jodice. Interessanti, poi, sono le prove di Fabio Cuttica che documenta il genere del narco-cinema di serie B e Davide Monteleone che, nella sezione Arti e Spettacolo, si concentra sulla sfilata di Valeria Marini.
Nella categoria Ritratti troviamo i riferimenti più forti con la fotografia d’arte: negli scatti di Joost Van der Broek, la cui serie dedicata ai marinai cadetti sulle navi ex unione sovietica ricorda la fotografa d’arte Rineke Dijkstra; Martin Roemers propone ritratti di città in movimento, fra Calcutta Mumbai e Giacarta; fortissima e al tempo stesso intrisa di visione estetica, l’immagine di Ed Kashi di una bambina handicappata, deforme a causa dell’ agente arancio sparato dai soldati in Vietnam. Che poi ci possano essere dei suggerimenti interessanti anche per la stessa fotografia d’autore non è escluso: il premio accoglie anche alcune forme sperimentali di fotografia giornalistica. Nella categoria Attualità, infatti, una menzione speciale è conferita al lavoro presentato da Michael Wolf, intitolato Series of unfortunate events, in cui il fotografo ha realizzato scatti di immagini raccolte da google street view di incidenti in giro per il mondo.
Un tempo era il catalogo. Pagine in carta lucida, spessa, copertina in brossura, colori vividi, testi curatoriali tradotti in due lingue, fotografie delle opere e apparato al fondo con didascalie complete. Ecco come si presentava: un oggetto lussuoso che nella maggioranza dei casi finiva a riempire le librerie e ad arredare i tavolini dei salotti. Insomma l’estasi del culto borghese per l’oggetto da esibizione, necessario complemento all’opera, anch’essa oggetto di ostentazione. Che si comprava per avere un souvenir della mostra appena visitata e trovare lo spunto necessario, nelle occasioni sociali, per raccontare agli amici episodi relativi all’ultimo viaggio. Chi non ricorda la scena di Carnage di Roman Polanski, in cui l’orrore di Jodie Foster è tutto per il catalogo rovinato dal vomito di Kate Winslet, e non per il vomito in questione? Bene, l’era gutenberghiana nell’arte volge al termine. Accanto a quell’oggetto di adorazione borghese oggi si trova un altro strumento, pratico, facile ed economico, nuovo oggetto di culto per gli appassionati di cultura tecnologica: la app. scaricabile per il telefonino.
Ma a cosa serve? Abbiamo scaricato l’ultimo ritrovato prodotto da uno dei più prestigiosi musei statunitensi: l’app che il Guggenheim ha realizzato per la mostra personale del nostro Maurizio Cattelan, in permanenza fino al prossimo 22 gennaio 2012 nel leggendario tempio dell’arte newyorchese.
Maurizio Cattelan: All è una mostra ambiziosa, che raccoglie tutto il lavoro dell’artista italiano, che ha, per l’appunto, approfittato furbescamente dell’occasione di questa retrospettiva per dichiarare la sua uscita dalle scene del mondo dell’arte. Un’esposizione antologica e onnicomprensiva, con 130 lavori del più celebre artista vivente italiano, amato e odiato, superstar dell’arte per le quotazioni, ma soprattutto sotto il profilo mediatico. Per una mostra importante dedicata ad un artista fuori dagli schemi, l’allestimento delle opere è prevedibilmente inedito anche per un museo come il Guggenheim: le opere sono appese al soffitto della celebre Rotunda.
E il progetto ambizioso comprende anche una app densa di contenuti multimediali. Fatta apposta per una star dei media come Cattelan.
E al confronto con il catalogo tradizionale, vince certamente la app. Pensata come un contenitore a cavallo fra l’audioguida e il catalogo vero e proprio, la app, strumento complementare al feticcio da salotto, contiene tutto quello che non si può mettere in un catalogo: tutto quello che vorreste sapere sull’artista Cattelan, e non avete mai avuto il coraggio di chiedere.
In primo luogo non è poi così male trovarsi fra le mani non più un tomo che ti costringeva a comprare valigie in più per portare a casa i voluminosi souvenirs, ma un’agile app che sta comodamente dentro il telefonino. Tanto più se non costa 50$ allo store del museo, ma soltanto 2,70 € su iTunes. Tanto più se, perfettamente a cavallo fra l’audioguida e lo spazio di approfondimento culturale, per questa mostra e’ uno strumento indispensabile, necessario per la fruizione della complessa exhibition. Siccome le opere di questa personale sono appese al soffitto con un filo, pressappoco come dei salami, in un allestimento in cui non solo mancano le didascalie necessarie, ma è difficile distinguere le singole installazioni dalla prospettiva sbilenca di chi salga la rampa ellittica del museo di Frank Lloyd Wright, la app. ha una funzione pratica: guidarci nella lettura e nella scoperta delle opere della mostra.
Le installazioni sulla app, quelle ci sono tutte, con le schede allegate, come nella migliore tradizione curatoriale del catalogo. E poi oltre ai testi troviamo video-interviste al curatore e a tutti i protagonisti della storia del Cattelan artista, che è anche curatore di mostre e editore di progetti originali. Insomma c’è tanto, in termini di pettegolezzi sul Cattelan-personaggio amato dai media, raccontato direttamente dalla bocca dei protagonisti, da Francesco Bonami a Massimiliano Gioni.
Insomma tutto quello che serve per alimentare e conservare il mito di Cattelan, artista non artista, funambolo dell’arte, curatore e mecenate, vincitore discusso o indiscusso sullo scacchiere del mercato, o semplicemente personaggio dei nostri tempi.
Negli Settanta gli sperimentatori della fotografia istantanea non potevano fare a meno di amare e idolatrare la Polaroid, la macchina targata Kodak che permetteva di stampare le immagini fotografate in meno di trenta secondi. La macchina emetteva automaticamente dopo lo scatto una carta fotografica di piccole dimensioni che, impressionata dalla luce, si sviluppava nelle mani del fotografo. Questi apparecchi oggi sono molto amati dai collezionisti: la casa produttrice ha, infatti, da alcuni anni smesso di produrre gli apparecchi analogici, mettendosi a sfornare macchine digitali dotate di stampanti a getto di inchiostro incorporate alla macchina da scatto. Il risultato del passaggio dall’analogico al digitale è che i colori delle fotografie che si ottengono sono, rispetto a quelle ottenibili con le macchine degli anni Settanta, molto diversi. Nonostante la Kodak, affidando la direzione artistica della casa a Lady Gaga, abbia cercato di fare un lancio molto glamourous dei nuovi apparecchi, il successo non è assicurato.
Cambiano i tempi, e in sostituzione di quella fotografia analogica pret-à-porter, entrano in gara le fotocamere digitali incorporate nei telefonini, capaci di cogliere frammenti di realtà vissuta quotidianamente a colpi di Mega Pixel. E se è vero che queste macchine non sono capaci di offrire la stampa immediata su carta fotografica, queste hanno dalla loro parte le enormi possibilità di condivisione immediata. Dove? In rete, naturalmente, tramite i social networks, da Facebook a Twitter, da YFrog a Flickr. E per la postproduzione non c’è problema: il manuale di Photoshop è superfluo se alcuni telefonini sono provvisti di una app. che permettere di modificare le immagini scattate in modo semplice ed efficace. La più cool presso gli appassionati di fotografia è certamente la app. varata dalla Apple per l’iPhone, Instagram, complici le macchine fotografiche a più alta risoluzione volute da Jobs a portata di cellulare. Attraverso l’applicazione di alcuni effetti alle immagini, quegli scatti, che erano rozzi e frettolosi si possono trasformare in vere e proprie fotografie, che strizzano l’occhio, con una cornice in formato quadrato similpolaroid o con la saturazione del colore in stile Lomo, alla più classica e conosciuta fotografia analogica.
Vediamo quali sono le novità di questa fotografia digitale a portata di iPhone introdotte dagli utenti Instagram. L’approccio dominante nelle immagini postate in rete è di fare della fotografia istantanea lo strumento di comunicazione con gli altri, siano essi amici o estranei, sino a costruire una sorta di diario personale in immagini. Molte delle foto scattate rispecchiano il lessico del quotidiano, fatto di oggetti di casa, di momenti di lavoro e di relax, di foto ricordo di viaggi e di amici, in una ostensione del privato che oggi accomuna personaggi pubblici e non. Come se sbirciare dal buco della serratura e guardare attraverso la lente della macchina fotografica fossero la stessa cosa; e come se l’atto di cliccare sul tasto ‘Mi piace’, fosse il modo per partecipare alla mise en scène della vita.
Molti poi sono i fotografi dilettanti che si confrontano con i generi classici della ‘vecchia’ fotografia analogica, quali quelli del paesaggio, e della natura morta: tutta la fotografia tradizionale si specchia in Instagram senza filtri.
Abbiamo chiesto ad alcuni professionisti, cosa ne pensano di Instagram. Maurizio Galimberti, maestro riconosciuto della polaroid d’arte in Italia, è incapace di un upgrade tecnologico nella direzione digitale: le sue sperimentazioni attualemente si concentrano sull’Impossibile project, ovvero sul lavoro tecnico atto a restituire alla nuove pellicola in formato Polaroid la capacità di riprodurre i colori che avevano i vecchi film degli anni Settanta. Progetto impossibile o quasi. Il fenomeno della diffusione del digitale, sostiene, non fa che aumentare le quotazioni dei vecchi lavori realizzati con le pellicole classiche, per l’appunto ormai irriproducibili. Francesco Nencini, fotografo, video maker di spot pubblicitari e produttore, (www.nencionencini/twitter.com) è più entusiasta dei nuovi mezzi a portata di telefono, anche se, afferma, siamo molto lontani da un possibile uso di quegli strumenti in chiave professionale e commerciale. Le nuove app., secondo lui, sono efficacissimi strumenti di scambio di stimoli visivi, non tanto fra operatori del settore, ma soprattutto fra amici. Lui, fotografo dedito al tema della solitudine, sottolinea che quelle app. sono finalizzate all’intrattenimento nella solitudine del nostro quotidiano.
Per il momento mero passatempo stimolante per tanti. In futuro chissà!