Come cambierà il mondo dell’arte dopo il Coronavirus

Come cambierà il mondo dell’arte dopo il Coronavirus non è dato saperlo. Al momento quello che sappiamo è come lo abbiamo lasciato prima dello scoppio dell’epidemia di COVID-19: sempre più concentrato su pochi operatori di grandi capitali, con sedi faraoniche, e capaci di operare in tutti gli ambiti, dal primo al secondo mercato.

Storicamente le gallerie sono nate non solo come luoghi di mercato, ma anche come sedi privilegiate di sperimentazione, in cui gli artisti potevano realizzare progetti innovativi, capaci di stravolgere il contenuto del white cube. Gli anni Sessanta, con lo sviluppo dell’arte d’avanguardia, sono pieni di episodi di questo genere: non si può non ricordare la mostra ‘Enviroment Situation and Spaces’ nel 1961 alla galleria di Martha Jackson di New York, il cui pavimento che fu riempito di pneumatici da Allan Kaprow. In Italia è celebre il garage-galleria di via Beccaria di Fabio Sargentini a Roma aperto nel 1968, che l’artista greco Jannis Kounellis popolò di cavalli, in linea con le sperimentazioni nate in seno al movimento dell’Arte Povera.

Ma oggi le cose sono cambiate: nel mercato dell’arte del Ventunesimo secolo, le gallerie più potenti al mondo hanno sedi sontuose dedicate a progetti espositivi di caratura museale. E’ il caso questo della galleria Hauser & Wirth di New York, una fra le gallerie più potenti al mondo, sempre presente ai primi dieci posti della Power 100 di Art Review, che ogni anno ci offre la classifica del personaggi più potenti del arte contemporanea mondiale.

La programmazione della galleria agli inizi 2020 si attesta sui classici: fino a fine gennaio la mostra della sede newyorchese è dedicata alle ceramiche di Picasso; nella filiale di Los Angeles si è aperta lo scorso 13 febbraio l’esposizione dedicata a Lucio Fontana Walking the Space: Spatial Environments 1948-1968. Del grande maestro dell’arte italiana la galleria ha esposto opere di qualità museale, come gli ambienti realizzati con la luce di Wood alla galleria del Naviglio del 1954. Si tratta di opere che sono sui manuali di storia dell’arte, per essere chiari.

Ma c’è di più. La galleria Hauser & Wirth sta sviluppando negli ultimi tempi servizi di carattere educativo, a titolo mecenatistico: attraverso l’ente no profit Hauser & Wirth Institute si dedica a finanziare attività di studio legate agli archivi storici, finalizzata al sostegno dello studio degli storici dell’arte e a garantire la conservazione dei lasciti degli artisti moderni e contemporanei. Certamente pensato per una delle principali fonti di arricchimento della galleria, ovvero l’archivio d’artista, l’Institute sembra nato per garantire nel tempo l’alimentazione di quella falda aurifera su cui si fonda la galleria, che oggi detiene i maggiori archivi dei più importanti artisti della storia dell’arte.

Ma c’è dell’altro. I grossi operatori, infatti, stanno cominciando ad aggredire anche quella fetta di mercato primario fatto di artisti sotto i quarant’anni, che popolavano le scuderie delle gallerie di scoperta. La concentrazione comincia a far paura a tante gallerie che hanno alimentato il mercato negli anni recenti, con storie di relazioni strette con gli artisti, di lungimiranza, e soprattutto di crescita graduale dei prezzi.

Recentemente sui social si è discusso se questo modello basato sulla concentrazione dei capitali nelle mani di gallerie molto potenti, sia fair o no: all’annuncio dell’entrata in scuderia di Hauser and Wirth del giovane talento Nicholas Party, Jerry Saltz, critico del New York Magazine e premio Pulitzer nel 2018 per Criticism, prova a mettere in guardia tutti circa l’aumento delle sfere di influenza di queste gallerie. Saltz, senza peli sulla lingua, le paragona ai colossi monopolistici di livello mondiale come Google e Amazon.

Insomma, sembra proprio che il mondo delle gallerie come le abbiamo conosciute nel secolo scorso, stia cambiando sempre di più. Questi colossi, più aggressivi su tutti i fronti della concorrenza, lo saranno ancora di più in futuro.