Pubblicato su FPmagazine.eu nel dicembre 2016.
La Galleria Rossella Colombari di Milano ospita fino al 30 gennaio 2017 una mostra intitolata Le Affinità Elettive, in cui, in un ambiente che ospita raffinati oggetti di design d’autore, le opere della collezione Molinario e una selezione di fotografie di Giovanni Gastel, è stata ricreata idealmente la casa del collezionista. In uno spazio in cui i rimandi fra fotografie e oggetti sono orchestrati fino a costruire a livello visivo il concetto delle affinità elettive, e fra artista e collezionista e fra opera e oggetto, si mette anche in scena per la prima volta il rapporto creatosi fra Ettore Molinario collezionista e Giovanni Gastel autore e maestro indiscusso della fotografia italiana.
Ho intervistato Giovanni Gastel ed Ettore Molinario tramite un’intervista doppia per comprendere meglio il concetto de Le Affinità Elettive applicato al loro rapporto.
Glenda Cinquegrana: Parliamo del progetto mostra ‘Le Affinità Elettive’. Da chi è scaturita l’idea di questo progetto?
Ettore Molinario: L’idea di questa mostra è partita dalla partecipazione della Galleria Rossella Colombari al Vogue Photo Festival. Poiché si trattava di un festival di fotografia di moda, Rossella mi ha chiesto se ero disponibile a mettere in mostra alcune foto della mia collezione. Mentre discutevamo sulla scelta delle opere è stato naturale pensare di coinvolgere Giovanni Gastel, di cui possiedo un buon numero di lavori.
Giovanni Gastel: L’oggetto della mostra era il rapporto fra collezionista e autore, che trovo molto interessante. Per me entrare nella casa del collezionista è un’emozione più alta che entrare in una galleria.
GC.: Come nasce il vostro rapporto di amicizia? Se è nato a partire dall’acquisto di un opera, quale è stata la foto che ha fatto da veicolo alla creazione di questo rapporto?
EM.: Ho conosciuto Giovanni in occasione dell’acquisto della prima foto sua, che era quella la della modella Shalom in abito rosso (ndr. che si trova in mostra).
GG.: La prima foto mia che Ettore ha acquisito in collezione è una delle opere che ho amato di più. Non a caso, Shalom è una delle muse della mia vita.
GC.: Che cosa accade Giovanni per te artista, quando un collezionista acquista la tua opera? E che cosa accade Ettore per te collezionista?
GG.: Per me le mie foto sono come dei messaggi nella bottiglia che mando dalla mia isola, che parlano della mia vita e della mia distonia verso il mondo. Come sai, non metto titoli alle mie foto, per lasciare sempre chi guarda libero di interpretarla come vuole. Le tue opere sono parte di te, e quando un pezzo della tua opera e, quindi della tua anima vanno in mano a qualcuno sei contento. Ma anche preoccupato, perché in questo modo un’altra persona possiede un pezzo di te.
EM.: Quando tu acquisti un’opera si crea un gioco di identificazione forte fra te e l’opera, che spesso non afferri subito. Più nel tempo ne diventi cosciente, più entri in empatia con le parti di te che ci sono nell’opera: è in questo modo che l’opera diventa veramente tua.
GC.: E qual è la caratteristica unica nel rapporto fra Gastel artista e Molinario collezionista?
GG.: La cosa straordinaria del nostro rapporto è che mi sembra che non solo Ettore abbia ricevuto il mio messaggio, ma che lo abbia capito in modo profondo. Nel suo caso percepisco che ama la mia opera quanto l’ho amata io.
EM.: Giovanni dice che con il possesso in qualche modo ricreo la sua opera. La particolarità della nostra forma di ‘ricreazione’ è che sento della sua opera che è come se Giovanni l’avesse fatta seguendo le mie caratteristiche interiori. Questa per me è l’affinità.
GC.: Nel testo che accompagna la mostra, Gastel parla delle affinità come mezzo per uscire dalla solitudine dell’essere; Ettore racconta dell’affinità elettiva come veicolo di ri-creazione.
EM.: Quando ho scritto questo pensiero ho ragionato sulla ‘ricreazione’, legame enigmatico fra l’artista e il collezionista. Per me quello su cui noi dialoghiamo senza parlare è la parte più profonda di noi, che ci raccontiamo attraverso il fatto che lui fa l’opera ed io la compro.
GG.: Ettore si appropria di un’opera, e nel momento in cui la ama così come l’ho amata io, per me ne diventa coautore.
GC.: Nel mondo artistico di Gastel contano molto le parole poetiche e le immagini. Se Gastel dovesse raccontare Molinario in una parola quale sceglierebbe? E in un’immagine della sua collezione, quale opera sarebbe? Lo stesso vorrei sapere da Molinario di Gastel.
GG.: Ho sempre usato due linguaggi: la poesia per indagare la parte dolorosa della vita e la fotografia per ricrearla in un mondo che non c’è. Una parola alla base della mia opera è eleganza, che vedo in chiave morale: l’eleganza non è in quello che fai, ma nel modo in cui fai le cose. Se dovessi selezionare un’opera di Ettore che lo rappresenta, sceglierei Shalom.
EM.: Per me la parola che userei per definire Giovanni è ‘curiosità’ nell’indagare. L’opera che lo rappresenta totalmente ai miei occhi è Shalom.
GC.: In questa mostra un ruolo importante è ricoperto anche dalla casa del collezionista, ricostruita all’interno della galleria Rossella Colombari con oggetti di design. Il design ha ricoperto un ruolo importante per lo sviluppo culturale di entrambi. Avreste voglia di raccontarmi come?
GG.: Ho vissuto in prima persona l’epoca della nascita del design italiano che è complementare alla nascita della moda italiana: nel 1985-86 con Flavio Lucchini e Gisella Borioli abbiamo intuito che design e moda erano due fenomeni interconnessi; in ‘Donna’, rivista geniale diretta dalla Borioli, la moda del made in Italy e il design italiano dialogano costantemente. Per me moda e design sono un unico linguaggio.
EM.: Anche per me come collezionista arte e design sono la stessa cosa. Laddove i meccanismi di acquisto sono sempre gli stessi, comprare un pezzo di design o un’opera mi è indifferente. Anche nel pezzo di design riconosco e acquisto nient’altro che pezzi di me stesso.
GC.: Se nel caso della mostra alla galleria Rossella Colombari il rapporto fra opere e ambiente è stato orchestrato in modo felice, che cosa accadrebbe se l’ambiente in cui fosse collocata la vostra opera fosse molto lontano dai vostri gusti? Immaginiamo per ipotesi che le fotografie di Gastel o le opere della collezione Molinario finissero esposte nella casa di un Donald Trump, ad esempio.
GG.: Se accadesse, non potrei impedirlo. Evidentemente penso di essere difeso da quello che faccio.
EM: Se un Trump volesse comprare la mia collezione non credo che ne sarei contento. Per me l’ambientazione è importante.
GC.: Qual sarebbe per voi l’ambientazione ideale per le vostre opere quindi?
GG.: Per me il museo deve mettere in atto un meccanismo che esalti l’opera, che la spieghi e che la valorizzi. Un museo di questo tipo è l’ambientazione che desidererei. A questo proposito, trovo preoccupante il fenomeno recente in campo museografico in cui il contenitore-museo sta diventando più importante dell’opera, (ndr. cita il caso Fondazione Vuitton realizzata da Frank Gehry).
EM.: Per me l’ideale è l’affinità fra opera e ambiente. Un fattore importante nell’allestimento dell’opera è l’atmosfera. Se un’opera comunica una particolare suggestione non puoi includerla in un’atmosfera troppo diversa da quella che suggerisce. L’allestimento per me deve essere ispirato da un principio di coerenza.