Venezia: una Biennale di molto impegno e pochi lustrini

Una Biennale di Venezia di molto impegno e pochi lustrini quella della 56esima edizione. Mentre i giornali sbrodolano fiumi di parole sulla mondanità della kermesse lagunare, infarcendoli di racconti leggendari sugli ospiti celeberrimi di Pinault e di Prada, la mostra è tutto altro che la leggerezza cui ci avevano abituato le migliori esposizioni degli ultimi anni, come quella di Gioni.

La parola d’ordine di questa esposizione internazionale d’arte, curata dal nigeriano Okwui Enwezor, è impegno politico e sociale, e una profonda ispirazione intellettuale e concettuale che spesso ne appesantisce il contenuto. Basti dire che il nume tutelare di  questa kermesse, come era stato Carl Gustav Jung nella mostra di Gioni e Tintoretto per la Curiger, quest’anno è il Marx de Il Capitale,  delle cui riletture sarà riempito un palcoscenico performativo che  costituisce la bella novità nel cuore del padiglione centrale dei Giardini. Dove il Capitale, è evidente, è opera alla luce della quale si possono interpretare tutte le contraddizioni dell’attuale società tardo-capitalista, i cui spettri ed orrori sono protagonisti assoluti della mostra, e vengono fuori come la polvere dai tappeti del salotto buono. Dove questi fantasmi sono rappresentati dallo sfruttamento estensivo del territorio, quello delle risorse umane, i nuovi flussi migratori di profughi, il dolore, le guerre egemoniche e le malattie. Il curatore spiega la sua visione della storia (e della mostra), quando citando Benjamin, racconta di un angelo che ha lo sguardo verso il passato, che è un’unica catastrofe che accumula senza tregua rovine. Ma che la visione della tempesta lo spinge verso il futuro. Diciamo pure che in All World’s Futures, più che il futuro vagheggiato dal titolo, vediamo la catena delle catastrofi di cui è frutto il nostro del presente.

Insomma il curatore, finalmente nero, africano, invocando All World’s Futures più che raccontarceli, non ci risparmia nulla dei drammi del presente, dove All World’s Futures, tutti i futuri del mondo, se sono prodotto di questo deterministico di questo presente hanno poco da svelare. E i risultati sono alterni, in una mostra in cui se l’impegno diventa anche il tema di un compito in classe obbligato per artisti più votati alla leggerezza ironica (come nel caso di Jeremy Deller, qui politicamente impegnato) o al gioco (Castern Holler) all’estetica minimalista (Oscar Murillo).

Una Biennale bella a tratti, dunque. La parte certamente più coerente e omogenea è la mostra nel padiglione principale dei Giardini, dove Enwezor che nelle sue prove curatoriali più celebri, ci aveva abituato ad allestimenti molto rigorosi e concettualmente densi, mantiene la vocazione al rigore alternando alcune opere capolavoro – mi riferisco all’ingresso consacrato a Fabio Mauri e alla sua opera dedicata a Pasolini, con tanto di voce – a lavori di grande potere concettuale – come le lavagne di Adrian Piper. Dove il rigore, l’impegno politico, che trova nell’Arena il suo epicentro in oltre alla performance c’è spazio per la musica, è sapientemente bilanciato da momenti di poesia. Come nel caso della stanza di Hans Haacke, in cui accanto ai questionari di carattere sociologico e politico degli anni Settanta si trova un’opera di leggerezza poetica come una vela blu danzante al vento (Blue Sail, 1965). Lo stesso accade nella stanza monografica dedicata a Isa Genzken e le sculture fra utopia architettonica e poesia, accanto ad una collezione di foto storiche del documentarista Walker Evans (Let Us Now Praise Famous Men, Sunday Singing, Tengle Family, 1936).

Adrian Piper, Everything Will Be Taken Away  21, 2010. 4 vintage blackboards in lacquered wood frames, dimensions variable. Installation view at Palazzo delle Esposizioni, Rome, 2013. Courtesy the Artist
Adrian Piper, Everything Will Be Taken Away  21, 2010. 4 vintage blackboards in lacquered wood frames, dimensions variable. Installation view at Palazzo delle Esposizioni, Rome, 2013. Courtesy the Artist

L’intensità concettuale del progetto curatoriale globale è attenuata da alcune pause pittoriche, come nelle tele di Elen Gallagher; ma il senso di angoscia è ritornante come nella stanza dedicata a Marlene Dumas, o nelle tele quelle del giovane giapponese morto suicida a soli trent’anni Tetsuya Ishida.

Nell’Arsenale invece questo impianto così rigoroso sembra sfaldarsi: dopo un inizio promettente nella prima stanza dedicata a maestro Bruce Nauman affiancato dalle Ninfee che altro non sono che armi affilatissime di Adel Abdessemed, troviamo una prima sezione interessante, con le opere fra musica e macchine da guerra del poco noto Terry Adkins o di Qui Zhijie (JingLing  Chronicle Theatre Project, 2010). Dopo, le buone prove degli italiani Pino Pascali e Monica Bonvicini, alcune sale monografiche sono di stacco, come nel caso di Thea Djordjadze. Ma dalla metà della mostra in avanti si comincia ad avvertire il senso di stanca, interrotto solo da alcune opere splendide come il video su doppio schermo di Steve McQueen e quello di Cao Fei (La Town, 2014). Sicuramente il pezzo più interessante è il questionario di Adrian Piper, che mette i partecipanti di fronte alla fallacia delle proprie promesse con obbligo di firma.

Verso la fine dalla stanza dedicata a Georg Baselitz, composta da pitture gemelle di spirito semi-esistenzialista, si arriva stremati all’ultima parte della mostra in cui dominano la bella opera video di Mika Rottenberg e l’installazione performance di Rirkrit Tiravanija. Se il futuro parte dalla fine, dalle macerie e dalle catastrofi accumulate che fanno la storia, la mostra apre solo interrogativi e non dà risposte. 

Una nota a parte merita il Padiglione Italia di Vincenzo Trione, in cui un’idea di futuro non solo non c’è,  ma il curatore neanche ci si mette a cercarla.  Fra video di propaganda a sfondo storico-turistico – mi riferisco al video di Greenaway – una video intervista a Umberto Eco, testi di deriva idealista che inneggiano ad uno spirito italiano che non si sa più dove trovarlo, se non nel passato e nella memoria, ha il merito di sperimentale un nuovo schema espositivo che nell’isolamento dei lavori degli artisti, chiusi in stanze come prigioni, cerca una sua novità. Ma il discorso curatoriale costruito in questo modo resta per questo bloccato e, accentuando la vocazione egocentrica dei singoli lavori, rivela la presenza di un filo conduttore troppo debole e ci chiude in una visione ideologica che sembra prelevata a piè pari dagli anni Trenta. Nonostante alcune opere buone (come nel caso di Kentridge e Kounellis) resta mortuario per clima ed impianto.