Il diario che si fa arte

Pubblicato su FPmagazine.eu  nel febbraio 2017.

Fondazione Prada apre l’Osservatorio, spazio dedicato alla fotografia collocato in uno degli edifici al centro della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, che dai suoi due piani offre una splendida vista sulla cupola in ferro e vetro dell’architetto Giuseppe Mengoni. La mostra di apertura è Give Me Yesterday, curata da Francesco Zanot, ed è dedicata al tema del diario personale riletto attraverso quattordici autori appartenenti alle giovani generazioni, che cresciuti nell’era di Facebook e dei blog, sembra non possano quasi prescindere da questo genere fotografico. Leggi tutto “Il diario che si fa arte”

Le Affinità Elettive, intervista doppia a Giovanni Gastel e Ettore Molinario

Un’immagine della mostra Le Affinità Elettive di Giovanni Gastel ed Ettore Molinario. © tspace, courtesy Galleria Rossella Colombari.

Pubblicato su FPmagazine.eu nel dicembre 2016.

 

La Galleria Rossella Colombari di Milano ospita fino al 30 gennaio 2017 una mostra intitolata Le Affinità Elettive, in cui, in un ambiente che ospita raffinati oggetti di design d’autore, le opere della collezione Molinario e una selezione di fotografie di Giovanni Gastel, è stata ricreata idealmente la casa del collezionista. In uno spazio in cui i rimandi fra fotografie e oggetti sono orchestrati fino a costruire a livello visivo il concetto delle affinità elettive, e fra artista e collezionista e fra opera e oggetto, si mette anche in scena per la prima volta il rapporto creatosi fra Ettore Molinario collezionista e Giovanni Gastel autore e maestro indiscusso della fotografia italiana.
Ho intervistato Giovanni Gastel ed Ettore Molinario tramite un’intervista doppia per comprendere meglio il concetto de Le Affinità Elettive applicato al loro rapporto. Leggi tutto “Le Affinità Elettive, intervista doppia a Giovanni Gastel e Ettore Molinario”

Giotto L’Italia

Giotto, Polittico di Badia
Giotto, Polittico di Badia

E’ in corso a Palazzo Reale di Milano fino a fine ottobre, la mostra – evento di chiusura della stagione artistica milanese dell’anno di Expo, Giotto L’Italia. L’ esposizione, posta sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana, promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e dal Comune di Milano – Cultura, con il patrocinio della Regione Lombardia, è prodotta e organizzata da Palazzo Reale e dalla casa editrice Electa, con un progetto scientifico di Pietro Petraroia e Serena Romano. Leggi tutto “Giotto L’Italia”

Interview THE BODY OF ENERGY (OF THE MIND) to Stefano Cagol by Glenda Cinquegrana

Stefano Cagol, The Body of Energy (of the mind): Museum Folkwang, 2015, infrared Museum Folkwang, 30-31 gennaio 2015 © Stefano Cagol
Stefano Cagol, The Body of Energy (of the mind): Museum Folkwang, 2015, infrared
Museum Folkwang, 30-31 gennaio 2015
© Stefano Cagol

Pubblicato su Notas Y reflexiones n.6, The Black Swann, luglio-ottobre 2015.

The Body of Energy (of the Mind) è il progetto che Stefano Cagol – artista trentino da diversi anni attivo a livello internazionale – sta conducendo da più di un anno in giro per l’Europa. Leggi tutto “Interview THE BODY OF ENERGY (OF THE MIND) to Stefano Cagol by Glenda Cinquegrana”

Venezia: una Biennale di molto impegno e pochi lustrini

Una Biennale di Venezia di molto impegno e pochi lustrini quella della 56esima edizione. Mentre i giornali sbrodolano fiumi di parole sulla mondanità della kermesse lagunare, infarcendoli di racconti leggendari sugli ospiti celeberrimi di Pinault e di Prada, la mostra è tutto altro che la leggerezza cui ci avevano abituato le migliori esposizioni degli ultimi anni, come quella di Gioni. Leggi tutto “Venezia: una Biennale di molto impegno e pochi lustrini”

Milan Art Sales: l’arte storica italiana è un brand che funziona.

 Lucio Fontana, "Concetto spaziale, Attesa"

Lucio Fontana (1899-1968)
Concetto spaziale, Attesa
Fotografia catalogo Christie’s

Che l’arte italiana sia ormai un brand creato ad hoc dalle due principali case d’asta internazionali è un fatto noto. E’ da quando sono state create le Italian Art Sales che il processo di costruzione è in corso, trovando nella formula dell’asta – evento il suo strumento più solido, dove la piazza londinese una volta l’anno è stata lo scenario ideale in cui abbiamo visto le due principali case d’asta contendersi ii mercato a colpi di lotti selezionatissimi dei principali movimenti di arte storicizzata italiana, come lo Spazialismo, l’Arte Povera, il gruppo Zero.

Negli anni questo lavoro ha contribuito a costruire l’immagine di un’arte italiana storica come segmento di mercato solido, stabile, affidabile, cresciuto assieme alla fama di alcuni e pochi artisti storici che ne costituiscono gli alfieri principali, amati dal mercato internazionale quali Manzoni Fontana, Boetti, Castellani Bonalumi, Pistoletto etc. Se poi aggiungiamo al lavoro delle principali case d’asta quello messo a punto dai numerosi dealers italiani di un certo peso, che trasferitisi a Londra, hanno cominciato a proporre l’arte italiana come asset agli investitori stranieri, si capisce bene come questo complesso lavoro di costruzione cominci a portare dei frutti maturi.

Questo è risultato che pare l’elemento più evidente emerso dalla sessione di martedì scorso dell’asta di Christie’s che si è tenuta a Milano, la Milan Modern and Contemporary, appuntamento creato solo tre anni fa, in una piazza come quella mlilanese che aveva visto ridurre negli ultimi la presenza dei dipartimenti delle principali case d’asta storiche. La formula scelta: la stessa delle aste londinesi, ed un catalogo un poco più ampio, suddiviso nell’arco di due sessioni, di cui una serale ed una pomeridiana come nelle più classiche sales internazionali. Altro elemento in gioco positivo è stato la scelta della settimana dell’apertura di Expo, del Museo Armani e della nuova Fondazione Prada e la Biennale di Venezia, strategicamente importanti per condurre in città investitori e appassionati in città, soprattutto stranieri.

Il record di incassi è stato pari a 18,3 milioni di Euro, con un totale di lotti venduti pari al 100% del totale: un sold assoluto, che costituisce quasi un vero e proprio unicum nelle aste di questo tipo. Mariolina Bassetti, direttore internazionale dipartimento Post-war & Contemporary ha dichiarato che la presenza maggioritaria di collezionisti stranieri, porta la maison di Pinault a centrare l’obiettivo di lavoro di tanti anni, che era quello di rendere l’arte italiana un vero e proprio asset di investimento internazionale.

Non è solo quantità di lotti venduti a stupire, ma lo sono alcune quotazioni che sono state messe a segno in questa occasione: innanzitutto Lucio Fontana si segnala come sempre come l’artista più amato e noto dal collezionismo internazionale, che si è conteso non solo il classico taglio, (Concetto Spaziale, Attesa del 1964-65, stimato 600-900 mila euro, ha toccato il 1.7 milioni di euro, e il Concetto Spaziale, attese del 1964, blu quattro tagli, che è stato aggiudicato per 1.5 milioni). Quello che più ha stupito è l’amore da parte del collezionismo anche di alcuni pezzi certamente più difficili e lontani dal gusto più comune quali un Caminetto in ceramica, pezzo complesso, composto di sei elementi diversi, di smalto e ceramica, che, a partire da una stima di 100-120.000 euro, è volato al 1.500.000 di euro. Un accadimento sorprendente.

Altra sorpresa sono le quotazioni molto alte che ha raggiunto Fausto Melotti, di cui erano presenti molti lotti in catalogo e di cui molti presentati alla sessione pomeridiana, venduti con un prezzo di battuta di molto superiore alle stime. Per dare un esempio, Il viaggio della luna del 1973, a partire da una stima di 150-200.000 euro è stata aggiudicato a 606.000 euro.

Non è certamente una sorpresa, ma una conferma l’alto apprezzamento mostrato in questa seduta per alcuni nomi costanti nelle aste internazionali come Alighieri Boetti, Enrico Castellani e Agostino Bonalumi, cui recentemente si è aggiunto anche Paolo Scheggi. Il primo con Il progressivo svanire della consuetudine è arrivato a 706.800 euro a partire da una stima di 350-550 mila euro; il secondo con una Superficie argento è arrivato ai 303.600 euro su una stima pari alla metà (150-200.000 euro); il terzo con un Nero degli assai Sessanta ha segnato i 404.400 euro su una valutazione pari a 180-250.000 euro; l’ultimo anche in questa sessione non ha deluso le aspettative in costante crescita degli ultimi anni con l’Intersuperficie curva dal rosso, arrivando agli 820.200 euro su una stima cauta, appena fra i 300-500 mila euro. Infine anche Michelangelo Pistoletto, conferma il trend positivo degli ultimi anni: con un Ritratto di Clino della collezione Trini Castelli, sfiora gli 800.000 euro (782.400 euro) a partire dalla stima pari alla metà ( 350-550.000 euro).

Che sia vero che l’arte italiana sia diventata un asset di investimento conteso dai collezionisti internazionali? I risultati di questi giorni lasciano ben sperare.

Mostre senza barriere

Prima scena: pomeriggio di sabato milanese. Lo scenario è quello di uno dei musei più conosciuti della città: spazio molto bello, mostre generalmente interessanti. L’esposizione è dedicata a un’artista che non conosciamo, né io né l’amica che mi accompagna, per cui affrontiamo la visita armate di desiderio di scoperta.
Entriamo nello spazio e troviamo poche indicazioni sulle opere; didascalie piccole e messe in posti difficili; nessun pannello riassuntivo all’ingresso, nessuna scheda sotto le didascalie. In più la mostra è realizzata in un ambiente unico, in cui alcune opere fanno da separè per definire diverse aree di spazio, che intuiamo sono state scelte per disporre lavori, forse appartenenti a tempi diversi e magari a filoni di ricerca diverse.
Vaghiamo per lo spazio senza aver capito molto: si tratta di un lavoro dedicato a cosa? Una scultura che gioca con il significato della funzione, sul senso di straniamento degli oggetti? Alla fine del percorso finalmente scopriamo degli schermi video messi in fondo alla sala che finalmente ci spiegano la natura misteriosa di questo lavoro. Usciamo dal museo piuttosto confuse: il risultato è la sensazione di vedere un film riavvolgendo il nastro a partire dalla fine.

Thomas Struth (1990) Art Intitute of Chicago II
Thomas Struth (1990)
Art Institute of Chicago II
Chromogenic print
cm 180 x 215

Seconda scena: Milano un pranzo organizzato da uno spazio che fa eventi e presentazioni di nuove tendenze. Mi trovo davanti tre ragazze giovani e sveglie che raccontano il loro progetto che, nato da un blog di riflessioni, si è trasformato per loro in un vero lavoro di consulenza legato proprio ai musei. Il loro blog si intitola Musei senza Barriere, ed è rivolto innanzitutto ad aprire una finestra di dialogo sui modi per migliorare l’accessibilità dei musei rispetto ad alcune problematiche specifiche, come la disabilità fisica (sia essa percettiva, cognitiva, relazionale, ma anche solo e semplicemente fisica), fino ad arrivare a ricomprendere proprio quella comunicativa, che forse è la barriera invisibile, ma anche la più insidiosa e comune. Soprattutto quando facciamo riferimento a quei musei, come quelli di arte contemporanea, il cui linguaggio è difficile da capire se non fai il curatore, se non hai visto almeno 12.000 mostre o se non ha in libreria tutti numeri di Flash Art.

Ho scoperto, malgrado i miei stessi pregiudizi, che quello che ai tempi dell’università era un tema da libri museografia scritti da post -sessantottine animate dalla missione di migliorare il mondo – tanto piene di grazia quanto di pregiudizi ideologici – può diventare un argomento interessante, fatto di esperienza, cultura e professionalità. Loro, le tre ragazze, ovvero Maria Chiara, Paola e Claudia, parlano di questi argomenti senza tabù, con garbo e serietà. Niente aria di missionarie impegnate in un’impresa di civilizzazione dei popoli bantù, ma occhio operativo e pratico anche quando si arriva all’argomento delicato della ‘disabilità mentale’. E la discussione si fa molto ricca di spunti quando un ragazzo in sedia a rotelle racconta delle sue esperienze dirette, ed un altro ragazzo che lavora nel turismo per disabili, che spiega come la visita ad un museo sia per quelle persone un’esperienza anche solo di svago e di ricerca di stimoli.

E così arriviamo al succo: la disabilità, più che una barriera fisica, spesso è una barriera culturale che sovrapponiamo fra noi e gli altri. Un pregiudizio che nasce dalla difficoltà di aprire la mente all’altro. Ma anche che chi non pensa di voler comunicare anche con te, in un momento ti trasforma in un disabile anche quando non lo sei affatto.

Gabriele Basilico e la fotografia tra passato e futuro

Il 13 febbraio 2013 è scomparso Gabriele Basilico, lo ricordiamo con questa intervista con Glenda Cinquegrana pubblicata originariamemte in due parti il 19 e 21 ottobre 2011 su Globalist.it.

Glenda Cinquegrana: Partiamo dal passato. Negli anni Settanta c’era il reportage, poi negli anni Ottanta nasce la fotografia di paesaggio.

Gabriele Basilico: In quegli anni Ottanta il mio interesse si concentrava sulla forma dello spazio, come se questa potesse rappresentare la forma del vivere. Questo costituiva un credo forte nel mio lavoro di quegli anni. Mi pongo di fronte alla città come un anatomo-patologo: se guardo il corpo di una persona cerco di capire qual è la sua vita a, come si muove, che cosa mangia e chi frequenta. Lo stesso accade quando guardo alla città: se l’abito fa il monaco, la morfologia del territorio crea i luoghi e le persone che li abitano. Ma resterei fuor di metafora: l’anatomo-patologo osserva i cadaveri..

Quali sono stati i riferimenti del lavoro di quegli anni?

In quel periodo che precede l’esplosione della fotografia della scuola di Düsseldorf, sento che la mia formazione come fotografo è stata influenzata non tanto dalla frequentazione delle mostre, quanto dalla lettura dei libri di fotografia. In quel momento acquistavo negli Stati Uniti diversi libri che in Italia non arrivavano.

Quali autori stranieri ti interessavano?

Il primo riferimento di forte importanza per mio lavoro è stato un fotografo conosciuto in quegli anni attraverso i libri: mi riferisco a William Klein. William Klein aveva realizzato alcuni anni prima quattro libri celebri dedicati alle città, di cui uno su New York, uno su Mosca, un altro su Tokyo, e infine su Roma. Erano quattro libri impaginati da lui, con fotografie apparentemente sgrammaticate, molto nere, molto forti, nelle quali l’obiettivo era molto vicino al soggetto. Queste opere mi apparivano straordinarie. Nessuno di noi fotografi aveva visto niente di simile in quegli anni. Con il ‘noi’ non mi riferisco solo ai fotografi della mia generazione, che erano esordienti negli anni Settanta, ma anche a coloro che consideravamo i nostri maestri, ossia Gianni Berengo Gardin e Ugo Mulas. Anche loro subirono certamente la stessa suggestione. Personalmente lo notavo nei loro lavori, ma anche negli obiettivi che usavano. Me ne accorgevo, poi, quando noi fotografi ci trovavamo sul campo, e noi giovani avevamo finalmente l’occasione di osservare come i maestri si comportavano fisicamente: i maestri di quegli anni avevano la tendenza ad avvicinarsi molto ai soggetti. Non si faceva molto lavoro a cavalletto in quel periodo, ma si usavano macchine leggere come le Nikon, le Leica. Questo derivava dall’influenza che aveva avuto su di noi il lavoro di William Klein.

Dopodichè sono arrivati i Becher.

Sì. Le immagini dei Becher esposte alla galleria di Marco Valsecchi in via Santa Marta a Milano nel 1976 mi hanno come risvegliato da un sonno: hanno completamente cambiato la mia vita. In quella mostra ricordo mi colpì moltissimo quella serie di oggetti industriali tutti in fila in un catalogo, veri e propri ritratti frontali di oggetti allineati come fossero un esercito.

Qual era l’aspetto che più ti colpiva di quelle foto? L’isolamento, l’oggettualità delle architetture?

Sì. Innanzitutto l’oggettualità, il senso dell’isolamento. Il lavoro era ‘archeologico’, poiché che si trattava di oggetti in disuso, quindi abbandonati. C’era un senso di solitudine; ma l’atto di raccoglierli tutti, incasellati come in un ossario, dava loro un senso di collettività. La catalogazione nel lavoro dei Becher per me è un elemento fondamentale della mia poetica. Una delle cose che mi ha influenzato maggiormente è il senso dell’infinito, ovvero l’ossessione che si percepiva, nel lavoro dei due fotografi, di non riuscire a chiudere la serie. Questa cosa per me è stata fortissima.

Da qui nasce il lavoro sulle fabbriche di Milano.

E’ vero. Anche quel lavoro sulle fabbriche è animato dallo stesso desiderio di non finire mai. Mi muovevo nella città fra ispirazione e follia, e guidato dal senso del possesso della città. Alla base di quell’ossessione di fotografare tutto si trova l’illusione che tu possa diventare una parte della città, e che al tempo stesso la città possa diventare qualcosa di privato, qualcosa di tuo. Era come un desiderio di metabolizzare la città: di restituirla, vomitandola, e al tempo stesso di ricomporla in modo preciso, per mezzo delle fotografie che rispecchiano un ordine definito.

Nel tempo percepisci un’evoluzione stilistica nel tuo lavoro? Ad esempio, nel lavoro degli anni Ottanta più minimalismo, e negli anni successivi maggiore libertà di narrazione?

Sulla narrazione ho delle riserve. A me piace raccontare, ma riesco a farlo attraverso la costruzione di un libro. Appartengo a quella categoria di fotografi che hanno sviluppato la propria storia e i propri miti attraverso i libri. Un libro rappresenta un progetto: ha una stampa, una sequenza di immagini, ed un modo di essere che deriva dall’atto di sfogliare le pagine e, quindi, un suo modo di tenere un ritmo. In un libro è lo sviluppo narrativo della sequenza delle immagini che racconta il tuo lavoro. Ancora oggi nell’esercizio della fotografia riesco a pensare alla narrazione solo all’interno dello processo di creazione di un libro.

Gabriele Basilico, Istanbul
Gabriele Basilico, Istanbul

G.C: Parliamo ora dello stile documentario come scelta di poetica: come mai questo costituiva un’efficace scelta di metodo di approccio alla realtà del tempo?

G.B.: A partire dagli anni Ottanta in avanti, il paesaggio ha cominciato a costituire oggetto di interesse per il lavoro dei fotografi, dall’America all’Italia. Mi riferisco, ad esempio, al progetto di Viaggio in Italia curato da Luigi Ghirri, che includeva tutti i fotografi di quella generazione. Questo interesse per il paesaggio nasceva da particolari condizioni storiche e sociali: in quel periodo le città stavano cambiando, e si registrava il passaggio dall’epoca della fine dell’era industriale verso quella post-moderna. Per i politici, per gli urbanisti e per coloro che si occupavano della forma del territorio era difficile capire il presente ed immaginare il futuro. In quel contesto, la fotografia, grazie al suo potere di rappresentazione e di figurazione poetica, da semplice mezzo di misurazione dello spazio, è diventata lo strumento per guardare al paesaggio da angolazioni diverse: uno strumento con cui specchiarsi, per non cadere nel cul de sac della difficoltà di immaginare il mondo. Da quel momento in poi c’è stato un forte esercizio del ritratto dei luoghi, e la grande tradizione dello stile documentario è diventata uno strumento efficace laddove questo permetteva di avere da un lato la precisione di racconto, ma dall’altro di raccontare cose che appartengono all’intimità di chi guarda. Io ed altri fotografi ci siamo sentiti investiti di una cultura della tradizione e abbiamo continuato questa poetica con fedeltà di scrittura.

Con l’avvento della post-modernità come è cambiato, o sta cambiando il modo di rapportarsi del fotografo con la realtà che ci circonda?

Il paesaggio costituisce ancora nella cultura egemone il riferimento di interesse e la fonte dei contenuti della fotografia. L’era della cultura digitale, con la sua visione del luogo visibile e accessibile a tutti e da ogni luogo, ha ridotto gli spazi di utilità della fotografia documentaria. Il fotografo oggi tende a vivere la sua esperienza ai margini del campo visivo e a raccontare il suo punto di vista fra i tanti possibili, senza ricercare quadri di riferimento.

Se il fotografo è privato della missione di mappatura del territorio, e di ricostruire un’immagine del mondo secondo un proprio sistema di riferimento e di metodo, cosa può fare? Quale può essere il ruolo del fotografo oggi nella realtà contemporanea?

L’era del digitale ha aperto territori ben più ampi di quello che si poteva prevedere a quegli artisti che usano la fotografia quale strumento di intervento e di riflessione sulle caratteristiche proprie del linguaggio della cultura digitale.

Qual è la tua risposta personale a questo cambiamento di paradigma?

Personalmente ritengo che finchè le immagini di paesaggio sono ancora in grado di costruire un triangolo emotivo e concettuale fra i luoghi, chi le scatta, e chi le guarda, la fotografia documentaria, intesa come metodo di ancoraggio alla realtà, sarà una valida risposta.

Gabriele Basilico, il genio del bianco e nero, si è spento all’età di 69 anni.