Una Biennale di Venezia di molto impegno e pochi lustrini quella della 56esima edizione. Mentre i giornali sbrodolano fiumi di parole sulla mondanità della kermesse lagunare, infarcendoli di racconti leggendari sugli ospiti celeberrimi di Pinault e di Prada, la mostra è tutto altro che la leggerezza cui ci avevano abituato le migliori esposizioni degli ultimi anni, come quella di Gioni. Leggi tutto “Venezia: una Biennale di molto impegno e pochi lustrini”
Milan Art Sales: l’arte storica italiana è un brand che funziona.
Che l’arte italiana sia ormai un brand creato ad hoc dalle due principali case d’asta internazionali è un fatto noto. E’ da quando sono state create le Italian Art Sales che il processo di costruzione è in corso, trovando nella formula dell’asta – evento il suo strumento più solido, dove la piazza londinese una volta l’anno è stata lo scenario ideale in cui abbiamo visto le due principali case d’asta contendersi ii mercato a colpi di lotti selezionatissimi dei principali movimenti di arte storicizzata italiana, come lo Spazialismo, l’Arte Povera, il gruppo Zero.
Negli anni questo lavoro ha contribuito a costruire l’immagine di un’arte italiana storica come segmento di mercato solido, stabile, affidabile, cresciuto assieme alla fama di alcuni e pochi artisti storici che ne costituiscono gli alfieri principali, amati dal mercato internazionale quali Manzoni Fontana, Boetti, Castellani Bonalumi, Pistoletto etc. Se poi aggiungiamo al lavoro delle principali case d’asta quello messo a punto dai numerosi dealers italiani di un certo peso, che trasferitisi a Londra, hanno cominciato a proporre l’arte italiana come asset agli investitori stranieri, si capisce bene come questo complesso lavoro di costruzione cominci a portare dei frutti maturi.
Questo è risultato che pare l’elemento più evidente emerso dalla sessione di martedì scorso dell’asta di Christie’s che si è tenuta a Milano, la Milan Modern and Contemporary, appuntamento creato solo tre anni fa, in una piazza come quella mlilanese che aveva visto ridurre negli ultimi la presenza dei dipartimenti delle principali case d’asta storiche. La formula scelta: la stessa delle aste londinesi, ed un catalogo un poco più ampio, suddiviso nell’arco di due sessioni, di cui una serale ed una pomeridiana come nelle più classiche sales internazionali. Altro elemento in gioco positivo è stato la scelta della settimana dell’apertura di Expo, del Museo Armani e della nuova Fondazione Prada e la Biennale di Venezia, strategicamente importanti per condurre in città investitori e appassionati in città, soprattutto stranieri.
Il record di incassi è stato pari a 18,3 milioni di Euro, con un totale di lotti venduti pari al 100% del totale: un sold assoluto, che costituisce quasi un vero e proprio unicum nelle aste di questo tipo. Mariolina Bassetti, direttore internazionale dipartimento Post-war & Contemporary ha dichiarato che la presenza maggioritaria di collezionisti stranieri, porta la maison di Pinault a centrare l’obiettivo di lavoro di tanti anni, che era quello di rendere l’arte italiana un vero e proprio asset di investimento internazionale.
Non è solo quantità di lotti venduti a stupire, ma lo sono alcune quotazioni che sono state messe a segno in questa occasione: innanzitutto Lucio Fontana si segnala come sempre come l’artista più amato e noto dal collezionismo internazionale, che si è conteso non solo il classico taglio, (Concetto Spaziale, Attesa del 1964-65, stimato 600-900 mila euro, ha toccato il 1.7 milioni di euro, e il Concetto Spaziale, attese del 1964, blu quattro tagli, che è stato aggiudicato per 1.5 milioni). Quello che più ha stupito è l’amore da parte del collezionismo anche di alcuni pezzi certamente più difficili e lontani dal gusto più comune quali un Caminetto in ceramica, pezzo complesso, composto di sei elementi diversi, di smalto e ceramica, che, a partire da una stima di 100-120.000 euro, è volato al 1.500.000 di euro. Un accadimento sorprendente.
Altra sorpresa sono le quotazioni molto alte che ha raggiunto Fausto Melotti, di cui erano presenti molti lotti in catalogo e di cui molti presentati alla sessione pomeridiana, venduti con un prezzo di battuta di molto superiore alle stime. Per dare un esempio, Il viaggio della luna del 1973, a partire da una stima di 150-200.000 euro è stata aggiudicato a 606.000 euro.
Non è certamente una sorpresa, ma una conferma l’alto apprezzamento mostrato in questa seduta per alcuni nomi costanti nelle aste internazionali come Alighieri Boetti, Enrico Castellani e Agostino Bonalumi, cui recentemente si è aggiunto anche Paolo Scheggi. Il primo con Il progressivo svanire della consuetudine è arrivato a 706.800 euro a partire da una stima di 350-550 mila euro; il secondo con una Superficie argento è arrivato ai 303.600 euro su una stima pari alla metà (150-200.000 euro); il terzo con un Nero degli assai Sessanta ha segnato i 404.400 euro su una valutazione pari a 180-250.000 euro; l’ultimo anche in questa sessione non ha deluso le aspettative in costante crescita degli ultimi anni con l’Intersuperficie curva dal rosso, arrivando agli 820.200 euro su una stima cauta, appena fra i 300-500 mila euro. Infine anche Michelangelo Pistoletto, conferma il trend positivo degli ultimi anni: con un Ritratto di Clino della collezione Trini Castelli, sfiora gli 800.000 euro (782.400 euro) a partire dalla stima pari alla metà ( 350-550.000 euro).
Che sia vero che l’arte italiana sia diventata un asset di investimento conteso dai collezionisti internazionali? I risultati di questi giorni lasciano ben sperare.
Mostre senza barriere
Prima scena: pomeriggio di sabato milanese. Lo scenario è quello di uno dei musei più conosciuti della città: spazio molto bello, mostre generalmente interessanti. L’esposizione è dedicata a un’artista che non conosciamo, né io né l’amica che mi accompagna, per cui affrontiamo la visita armate di desiderio di scoperta.
Entriamo nello spazio e troviamo poche indicazioni sulle opere; didascalie piccole e messe in posti difficili; nessun pannello riassuntivo all’ingresso, nessuna scheda sotto le didascalie. In più la mostra è realizzata in un ambiente unico, in cui alcune opere fanno da separè per definire diverse aree di spazio, che intuiamo sono state scelte per disporre lavori, forse appartenenti a tempi diversi e magari a filoni di ricerca diverse.
Vaghiamo per lo spazio senza aver capito molto: si tratta di un lavoro dedicato a cosa? Una scultura che gioca con il significato della funzione, sul senso di straniamento degli oggetti? Alla fine del percorso finalmente scopriamo degli schermi video messi in fondo alla sala che finalmente ci spiegano la natura misteriosa di questo lavoro. Usciamo dal museo piuttosto confuse: il risultato è la sensazione di vedere un film riavvolgendo il nastro a partire dalla fine.
Seconda scena: Milano un pranzo organizzato da uno spazio che fa eventi e presentazioni di nuove tendenze. Mi trovo davanti tre ragazze giovani e sveglie che raccontano il loro progetto che, nato da un blog di riflessioni, si è trasformato per loro in un vero lavoro di consulenza legato proprio ai musei. Il loro blog si intitola Musei senza Barriere, ed è rivolto innanzitutto ad aprire una finestra di dialogo sui modi per migliorare l’accessibilità dei musei rispetto ad alcune problematiche specifiche, come la disabilità fisica (sia essa percettiva, cognitiva, relazionale, ma anche solo e semplicemente fisica), fino ad arrivare a ricomprendere proprio quella comunicativa, che forse è la barriera invisibile, ma anche la più insidiosa e comune. Soprattutto quando facciamo riferimento a quei musei, come quelli di arte contemporanea, il cui linguaggio è difficile da capire se non fai il curatore, se non hai visto almeno 12.000 mostre o se non ha in libreria tutti numeri di Flash Art.
Ho scoperto, malgrado i miei stessi pregiudizi, che quello che ai tempi dell’università era un tema da libri museografia scritti da post -sessantottine animate dalla missione di migliorare il mondo – tanto piene di grazia quanto di pregiudizi ideologici – può diventare un argomento interessante, fatto di esperienza, cultura e professionalità. Loro, le tre ragazze, ovvero Maria Chiara, Paola e Claudia, parlano di questi argomenti senza tabù, con garbo e serietà. Niente aria di missionarie impegnate in un’impresa di civilizzazione dei popoli bantù, ma occhio operativo e pratico anche quando si arriva all’argomento delicato della ‘disabilità mentale’. E la discussione si fa molto ricca di spunti quando un ragazzo in sedia a rotelle racconta delle sue esperienze dirette, ed un altro ragazzo che lavora nel turismo per disabili, che spiega come la visita ad un museo sia per quelle persone un’esperienza anche solo di svago e di ricerca di stimoli.
E così arriviamo al succo: la disabilità, più che una barriera fisica, spesso è una barriera culturale che sovrapponiamo fra noi e gli altri. Un pregiudizio che nasce dalla difficoltà di aprire la mente all’altro. Ma anche che chi non pensa di voler comunicare anche con te, in un momento ti trasforma in un disabile anche quando non lo sei affatto.
Gabriele Basilico e la fotografia tra passato e futuro
Il 13 febbraio 2013 è scomparso Gabriele Basilico, lo ricordiamo con questa intervista con Glenda Cinquegrana pubblicata originariamemte in due parti il 19 e 21 ottobre 2011 su Globalist.it.
Glenda Cinquegrana: Partiamo dal passato. Negli anni Settanta c’era il reportage, poi negli anni Ottanta nasce la fotografia di paesaggio.
Gabriele Basilico: In quegli anni Ottanta il mio interesse si concentrava sulla forma dello spazio, come se questa potesse rappresentare la forma del vivere. Questo costituiva un credo forte nel mio lavoro di quegli anni. Mi pongo di fronte alla città come un anatomo-patologo: se guardo il corpo di una persona cerco di capire qual è la sua vita a, come si muove, che cosa mangia e chi frequenta. Lo stesso accade quando guardo alla città: se l’abito fa il monaco, la morfologia del territorio crea i luoghi e le persone che li abitano. Ma resterei fuor di metafora: l’anatomo-patologo osserva i cadaveri..
Quali sono stati i riferimenti del lavoro di quegli anni?
In quel periodo che precede l’esplosione della fotografia della scuola di Düsseldorf, sento che la mia formazione come fotografo è stata influenzata non tanto dalla frequentazione delle mostre, quanto dalla lettura dei libri di fotografia. In quel momento acquistavo negli Stati Uniti diversi libri che in Italia non arrivavano.
Quali autori stranieri ti interessavano?
Il primo riferimento di forte importanza per mio lavoro è stato un fotografo conosciuto in quegli anni attraverso i libri: mi riferisco a William Klein. William Klein aveva realizzato alcuni anni prima quattro libri celebri dedicati alle città, di cui uno su New York, uno su Mosca, un altro su Tokyo, e infine su Roma. Erano quattro libri impaginati da lui, con fotografie apparentemente sgrammaticate, molto nere, molto forti, nelle quali l’obiettivo era molto vicino al soggetto. Queste opere mi apparivano straordinarie. Nessuno di noi fotografi aveva visto niente di simile in quegli anni. Con il ‘noi’ non mi riferisco solo ai fotografi della mia generazione, che erano esordienti negli anni Settanta, ma anche a coloro che consideravamo i nostri maestri, ossia Gianni Berengo Gardin e Ugo Mulas. Anche loro subirono certamente la stessa suggestione. Personalmente lo notavo nei loro lavori, ma anche negli obiettivi che usavano. Me ne accorgevo, poi, quando noi fotografi ci trovavamo sul campo, e noi giovani avevamo finalmente l’occasione di osservare come i maestri si comportavano fisicamente: i maestri di quegli anni avevano la tendenza ad avvicinarsi molto ai soggetti. Non si faceva molto lavoro a cavalletto in quel periodo, ma si usavano macchine leggere come le Nikon, le Leica. Questo derivava dall’influenza che aveva avuto su di noi il lavoro di William Klein.
Dopodichè sono arrivati i Becher.
Sì. Le immagini dei Becher esposte alla galleria di Marco Valsecchi in via Santa Marta a Milano nel 1976 mi hanno come risvegliato da un sonno: hanno completamente cambiato la mia vita. In quella mostra ricordo mi colpì moltissimo quella serie di oggetti industriali tutti in fila in un catalogo, veri e propri ritratti frontali di oggetti allineati come fossero un esercito.
Qual era l’aspetto che più ti colpiva di quelle foto? L’isolamento, l’oggettualità delle architetture?
Sì. Innanzitutto l’oggettualità, il senso dell’isolamento. Il lavoro era ‘archeologico’, poiché che si trattava di oggetti in disuso, quindi abbandonati. C’era un senso di solitudine; ma l’atto di raccoglierli tutti, incasellati come in un ossario, dava loro un senso di collettività. La catalogazione nel lavoro dei Becher per me è un elemento fondamentale della mia poetica. Una delle cose che mi ha influenzato maggiormente è il senso dell’infinito, ovvero l’ossessione che si percepiva, nel lavoro dei due fotografi, di non riuscire a chiudere la serie. Questa cosa per me è stata fortissima.
Da qui nasce il lavoro sulle fabbriche di Milano.
E’ vero. Anche quel lavoro sulle fabbriche è animato dallo stesso desiderio di non finire mai. Mi muovevo nella città fra ispirazione e follia, e guidato dal senso del possesso della città. Alla base di quell’ossessione di fotografare tutto si trova l’illusione che tu possa diventare una parte della città, e che al tempo stesso la città possa diventare qualcosa di privato, qualcosa di tuo. Era come un desiderio di metabolizzare la città: di restituirla, vomitandola, e al tempo stesso di ricomporla in modo preciso, per mezzo delle fotografie che rispecchiano un ordine definito.
Nel tempo percepisci un’evoluzione stilistica nel tuo lavoro? Ad esempio, nel lavoro degli anni Ottanta più minimalismo, e negli anni successivi maggiore libertà di narrazione?
Sulla narrazione ho delle riserve. A me piace raccontare, ma riesco a farlo attraverso la costruzione di un libro. Appartengo a quella categoria di fotografi che hanno sviluppato la propria storia e i propri miti attraverso i libri. Un libro rappresenta un progetto: ha una stampa, una sequenza di immagini, ed un modo di essere che deriva dall’atto di sfogliare le pagine e, quindi, un suo modo di tenere un ritmo. In un libro è lo sviluppo narrativo della sequenza delle immagini che racconta il tuo lavoro. Ancora oggi nell’esercizio della fotografia riesco a pensare alla narrazione solo all’interno dello processo di creazione di un libro.
G.C: Parliamo ora dello stile documentario come scelta di poetica: come mai questo costituiva un’efficace scelta di metodo di approccio alla realtà del tempo?
G.B.: A partire dagli anni Ottanta in avanti, il paesaggio ha cominciato a costituire oggetto di interesse per il lavoro dei fotografi, dall’America all’Italia. Mi riferisco, ad esempio, al progetto di Viaggio in Italia curato da Luigi Ghirri, che includeva tutti i fotografi di quella generazione. Questo interesse per il paesaggio nasceva da particolari condizioni storiche e sociali: in quel periodo le città stavano cambiando, e si registrava il passaggio dall’epoca della fine dell’era industriale verso quella post-moderna. Per i politici, per gli urbanisti e per coloro che si occupavano della forma del territorio era difficile capire il presente ed immaginare il futuro. In quel contesto, la fotografia, grazie al suo potere di rappresentazione e di figurazione poetica, da semplice mezzo di misurazione dello spazio, è diventata lo strumento per guardare al paesaggio da angolazioni diverse: uno strumento con cui specchiarsi, per non cadere nel cul de sac della difficoltà di immaginare il mondo. Da quel momento in poi c’è stato un forte esercizio del ritratto dei luoghi, e la grande tradizione dello stile documentario è diventata uno strumento efficace laddove questo permetteva di avere da un lato la precisione di racconto, ma dall’altro di raccontare cose che appartengono all’intimità di chi guarda. Io ed altri fotografi ci siamo sentiti investiti di una cultura della tradizione e abbiamo continuato questa poetica con fedeltà di scrittura.
Con l’avvento della post-modernità come è cambiato, o sta cambiando il modo di rapportarsi del fotografo con la realtà che ci circonda?
Il paesaggio costituisce ancora nella cultura egemone il riferimento di interesse e la fonte dei contenuti della fotografia. L’era della cultura digitale, con la sua visione del luogo visibile e accessibile a tutti e da ogni luogo, ha ridotto gli spazi di utilità della fotografia documentaria. Il fotografo oggi tende a vivere la sua esperienza ai margini del campo visivo e a raccontare il suo punto di vista fra i tanti possibili, senza ricercare quadri di riferimento.
Se il fotografo è privato della missione di mappatura del territorio, e di ricostruire un’immagine del mondo secondo un proprio sistema di riferimento e di metodo, cosa può fare? Quale può essere il ruolo del fotografo oggi nella realtà contemporanea?
L’era del digitale ha aperto territori ben più ampi di quello che si poteva prevedere a quegli artisti che usano la fotografia quale strumento di intervento e di riflessione sulle caratteristiche proprie del linguaggio della cultura digitale.
Qual è la tua risposta personale a questo cambiamento di paradigma?
Personalmente ritengo che finchè le immagini di paesaggio sono ancora in grado di costruire un triangolo emotivo e concettuale fra i luoghi, chi le scatta, e chi le guarda, la fotografia documentaria, intesa come metodo di ancoraggio alla realtà, sarà una valida risposta.
Gabriele Basilico, il genio del bianco e nero, si è spento all’età di 69 anni.
Il genio di David LaChapelle in mostra a Lucca
Originariamente pubblicato su Globalist.it.
Eccessivo, ridondante; ma anche geniale, visionario, surrealista. Ossessionato dalla cultura pop, marca espressiva di tutta la cultura contemporanea, come dalla perfezione estetica, che ricrea entrambe negli scenari apparecchiati ad hoc, nei quali la visione d’insieme si scompone nella cura maniacale per i dettagli, in un barocchismo linguistico – visivo che o si ama o si odia.
LaChapelle non è un fotografo da mezze misure. Ben oltre la fotografia di moda e i suoi clichès, che pure ha ampiamente praticato nelle numerosissime collaborazioni con riviste come GQ, Vanity Fair, Vogue, Homme, Rolling Stones, la sua è vera e propria arte dell’immagine, che vive nello spazio limite che l’artista apre fra banalità dello stereotipo pop e genialità dell’invenzione ironica e surreale. Non a caso ha esordito negli anni Ottanta grazie al padrino dell’arte pop all’apice della sua visione commerciale quale era il grande Andy Warhol.
Piaccia o non piaccia, David LaChapelle è uno dei più celebri fotografi contemporanei.
Lo potete vedere a L.U.C.C.A. Center for Contemporary Art fino al 4 novembre 2012 in una mostra che raccoglie ben 53 scatti, scelti fra i principali nuclei tematici della sua produzione, raccontata in 10 serie, fra cui Star System, Deluge (Awakened), EarthLaughs in Flowers, After the Pop, Destruction and Disaster, Excess, Plastic People, Dream evokes Surrealism, Art References e Negative Currency.
Anche se oggi la sua produzione fotografica si è fatta più impegnata – secondo lo spirito dei tempi – e più raffinata – in un abile gioco di riferimenti alla cultura classica – la sua produzione più interessante si ritrova nei ritratti delle celebrities. In queste opere la verità dei personaggi si fa funzionale ad una visione che spesso va oltre il limite della spregiudicatezza e della provocazione, e tocca momenti di invenzione geniale.
L’insegnamento di Bill Viola ai giovani artisti
Originariamente pubblicato su PadPad.eu.
Bill Viola è uno dei più grandi artisti contemporanei. Le sue opere video, oggi nei maggiori musei del mondo, rispecchiano una visione intrisa di spiritualità profonda, accompagnata dalla grandissima abilità tecnica nella difficile pratica della videoarte. Lo abbiamo ascoltato parlare in una lecture che l’Università Bocconi gli aveva riservato in occasione dell’apertura della grande mostra antologica che Villa Panza gli dedica fino al prossimo 28 ottobre. Parlando di fronte ad un’aula gremita di studenti, l’artista americano si è soffermato a spiegare il significato dell’essere artisti. Abbiamo riportato alcuni tratti salienti di questa conferenza, in cui racconta il difficile compito degli artisti, offrendo una lezione antitetica rispetto a quella che ci hanno proposto in questi anni nomi di successo come Damien Hirst e i suoi numerosi imitatori.
La vita è un dono e l’arte è imparare a donare e a ricevere.
In questa conferenza non parlerò di mercato dell’arte, né di questo momento particolare in cui l’arte vale centinaia di milioni di dollari, a causa del modo in cui il sistema economico si è costituito, fino al punto in cui l’arte volta le spalle agli stessi artisti che l’hanno creata. In questa conferenza voglio parlare in modo particolare agli studenti, poiché il momento in cui siete, ovvero all’inizio della vostra vita nel mondo, e’ molto importante, anche se queste mie parole non sono destinate solo ai giovani, ma a tutti gli artisti di tutte le età, dai venti agli ottanta anni. Come studenti vorrei che innanzitutto foste consapevoli che dentro di voi abita un dono, e che vivrete in compagnia di esso per tutta la vostra vita: questo vi darà ispirazione, vi aiuterà, e se non lo tratterete nel modo giusto vi farà del male. Altra cosa importante su cui vorrei soffermarmi è questa: il principio del dono è una delle condizioni fondanti di tutto quello che siamo come uomini. Ogni persona che voi incontrerete nel corso della vostra vita, e la stessa ragione per cui siamo qui adesso, è che qualcuno ci ha dato un aiuto nel passato. Sono qui oggi e posso fare un gesto semplice come il mettermi gli occhiali, soltanto perché mia madre mi ha insegnato a nutrirmi quando ero un neonato. Per questo motivo dovrete imparare ad essere molto attenti quando qualcuno vuole darvi qualcosa, perché le condizioni per ricevere un dono non si verificano sempre.
La missione dell’artista: portatore di una visione dell’umanità.
La ragione più semplice su cui si basa il mio successo come artista è nell’uso che ho fatto non tanto della testa ma del cuore. Il cuore conosce la differenza fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; il cuore ci insegna a distinguere ciò che è bene e ciò che è male. Fate attenzione ad ascoltarlo e a sentirlo. L’arte non è un gioco in cui è importante chi riesce ad essere l’artista più furbo, più innovativo, disturbante, più ricco e di successo: questo ha a che fare con i prodotti del mercato, ma non con il fare arte. L’arte è qualcosa che ha che fare con l’essere onesti e profondamente autentici di fronte a se stessi. Quando nessun altro vi guarda, voi fate il vostro compito in nome di una guida che è qui, (e fa cenno a cuore ndr) e che è al di sopra di voi (alza gli occhi al cielo ndr).
E poi mi rivolgo ancora una volta soprattutto ai giovani quando dico che la prima condizione per fare arte è la consapevolezza che questa è una pratica dotata di una grande serietà, e che ha una storia molto lunga. Alcune guerre sono state combattute sulle immagini, alcune persone sono morte su di esse, altre sono state salvate grazie alle immagini. Come artisti dovete essere consapevoli del vivere in un momento particolare dei nostri tempi e che per questo siete destinati ad essere portatori di una visione: voi sarete i portatori di una visione dell’umanità, funzione dell’artista che risale agli inizi della civiltà umana.
Le cose vengono tutte dall’essere profondamente voi stessi in un punto particolare del momento storico in cui siete e dal vostro essere senza protezioni a più livelli di fronte al presente: è da qui che vengono i capolavori. I capolavori non vengono mai fuori da un’idea furba, ma trovano la loro base nella lotta, nel dolore, nella fatica del provare e riprovare di nuovo, fino a quando l’opera non funziona. Al termine di questo processo difficile qualcosa viene fuori, e molto spesso tu stesso non sai neppure da dove viene quello che hai realizzato.
Parole di Bill Viola, testo riportato e tradotto da Glenda Cinquegrana
Io opera d’arte per Marina Abramović
Originariamente pubblicato su PadPad Revolution.
Silenzio. Nello spazio vuoto e bianco del museo, risuona il rintocco di un metronomo, i cui battiti scandiscono i secondi di un tempo che sembra lunghissimo. Gli occhi, che sono chiusi, intravedono sotto le palpebre la luce della stanza, nella quale presupponi ci sia il movimento dei visitatori; le orecchie, invece, restano racchiuse in una cuffia che ti impedisce di sentire null’altro se non il battito dell’orologio e il rumore del tuo respiro.
Questa è la sensazione che ha chi partecipa alla sessione della performance di Marina Abramović: ovvero quella, piacevole o disturbante che sia, di essere completamente consegnato a te stesso, al proprio io, alle sensazioni recondite e alle paure inconfessate, e contemporaneamente di essere offerto in pasto al pubblico, sotto forma di living sculpture. Dove tu, fragile di fronte a te stesso, sei in quello stesso momento oggetto attenzione da parte dei visitatori, che non solo ti possono guardare, ma perfino scrutare, se vogliono, da un binocolo che si trova sul ballatoio del PAC.
Ecco in che cosa costituisce il Metodo Abramović per un partecipante alla performance che è in corso in questi giorni al PAC fino al prossimo 10 giugno, nella quale l’artista serba, vera madrina dell’arte di performance internazionale, consegna l’eredità del suo lavoro performativo degli ultimi anni. In questa occasione l’artista sperimenta in modo ancora più profondo e cosciente l’importanza del ruolo del pubblico nella performance.
The Abramović Method nasce da una recente consapevolezza raggiunta da Marina a seguito dell’estenuante sessione di 75 giorni di performance, intitolata the Artist is present, da lei conseguiti al MOMA di New York, nella quale essa ha affrontato quotidianamente per sette ore il pubblico del museo, che, seduto davanti a lei, era chiamato ad interagire con l’artista, a sua volta seduta dall’altro capo del tavolo. In questa ultima opera l’artista prosegue lungo la direzione della concettualizzazione della performance: in the Abramović Method essa non vi partecipa attivamente, lasciando che pubblico, sia esso quello attivo, ovvero dei partecipanti, sia esso quello passivo, fatto di chi vi assiste, ne costituisca quasi il solo elemento fondamentale. Il secondo strumento dell’azione performativa è rappresentato dagli oggetti che si trovano negli spazi del museo, strutture minimali leggere come gabbie, sedie e giacigli di legno, concepiti sotto forma di sculture di minerali, che fungono da catalizzatori di un corto circuito energetico fra attori e spettatori.
In questo articolo vi racconto la mia personalissima esperienza a The Abramović Method. In un pomeriggio di un giorno feriale mi trovo a far parte del pubblico della performance, che è formato da una ventina di persone fra visitatori e partecipanti, causalmente riuniti per l’occasione, e seduti nella sala del PAC davanti allo schermo. Marina parla attraverso il video, e chiede ai performer di cederle due ore del loro tempo, in cui, in base al contratto siglato con lei, il loro compito, semplice e al tempo stesso difficilissimo, sarà quello di affrontare se stessi, trovarsi davanti al proprio io al di là della banalità del quotidiano: quindi, di vedere con gli occhi chiusi ciascuno il proprio stato di coscienza, e di sostarvi per un tempo sufficientemente lungo. Il tutto sotto gli occhi dei visitatori curiosi. Lo scopo viene realizzato tramite la messa in atto di una forma di deprivazione sensoriale, forma di isolamento dell’individuo, calata nella pratica in tre posizioni base del corpo umano, ovvero quella in piedi, quella da distesi, a quella da seduti.
La performance sembra lunghissima. Il tempo, scandito dai rintocchi del metronomo, durante il quale non puoi che chiederti che cosa stia accadendo fuori, sembra non passare mai, mentre sei isolato e obbligato a non muoverti. Solo di fronte ai tuoi pensieri, mentre intuisci che gli spettatori si trovano davanti a te. Una sensazione difficile da paragonare ad altre, vicina ad una forma di meditazione, cui si somma il brivido della consapevolezza di essere in quel momento parte di uno spettacolo.
Una meditazione che diventa condizione difficile perché è obbligata in limiti precisi di spazio e tempo: perché non puoi muoverti o andare via, o rompere l’isolamento, perché hai firmato un contratto con Marina; e mentre senti il rumore dei secondi che passano, ti trovi ad affrontare il limite della tua volontà, combattuta fra il resistere e il liberarsi. Dove l’unico momento di pausa in questo ascoltare il flusso di coscienza è dato dal tocco alla spalla delle assistenti, che ti conducono gentilmente e freddamente alla prossima posizione.
Il tempo appare passare immobile ed in modo immisurabile. Al termine delle due ore, quando riprendi pienamente coscienza di te collocato nello spazio del museo, è difficile capire quello che hai percepito tu e quello che ha visto il pubblico che avevi di fronte. Impossibile poi è confrontare con gli altri partecipanti le esperienze che ciascuno ha vissuto: tutto ciò che è stato performance è stato strettamente dipendente dall’hic et nunc del momento, dal tuo stato d’animo e da una serie di variabili imprevedibili, quali la quantità di pubblico presente, e il tuo stato fisico e mentale.
Assieme al bagaglio di se stesso, ciascuno è stato un’opera unica e irripetibile. E per averci dato questa occasione dobbiamo ringraziare la grandissima Marina.
Marlene Dumas a Milano: una mostra poco riuscita
Pubblicato originariamente su Globalist.ch.
Al Palazzo delle Stelline a Milano sono in mostra, dal 13 marzo al 17 giugno 2012, una quindicina di opere dell’artista sudafricana Marlene Dumas: l’esposizione comprende nuclei di opere della sua produzione più recente, di cui alcune appositamente realizzate per lo spazio dell’ex collegio delle orfane delle Stelline, altre tratte dalla mostra londinese intitolata Forsaken e altre che sono ispirate a personaggi che per l’artista incarnano l’identità italiana, fra cui Pierpaolo Pasolini, e l’Anna Magnani di Mamma Roma. Nella mostra l’artista, distaccandosi dall’erotismo declinato al femminile che ha caratterizzato la sua produzione più celebre e richiesta, approfondisce il tema della sofferenza e dei destini ad essa legati, sintetizzati nell’immagine iconica del Cristo Crocifisso.
Il talento dell’artista olandese è innegabile ed evidente nella capacità di dipingere con pennellate sottili, che ricordano quasi più la tempera che l’olio vero e proprio, in i cui pochi tratti, di matrice espressionista, riescono a riassumere tutti i caratteri di una scena o di un personaggio, accostando colori opposti o complementari con grande abilità e destrezza. In queste opere il lavoro pittorico è costruito nel contrasto fra i colori scuri, bitumosi, e le trasparenze sottilissime, dove il colore persegue il raggiungimento di una fortissima sintesi espressiva.
Eppure la mostra, che è incentrata su nuclei diversi, appare disorganica e priva di un centro concettuale forte, concepita come è tramite l’accostamento di gruppi di opere diverse, in cui spiccano alcuni momenti pittorici felici sul progetto visto nella sua globalità: soprattutto i ritratti di piccolo formato, e il nucleo della opere tratte da una serie di immagini dell’archivio dell’ex collegio delle orfane. Bello il piccolo dittico Three Night e Three Day, che rappresenta il chiostro delle Stelline di notte e di giorno, e le due pitture che tratteggiano due orfane in mantello nero, che si stagliano sul fondo fatto di pennellate grigie e scure.
Proseguendo lungo la mostra, il tema visivo del Cristo Crocifisso diventa grido ripetuto in modo ossessivo: il Cristo in croce, simbolo dell’abbandono al momento della morte dal Dio-padre, cui si ricollega il grido dell’Anna Magnani, è ripetuto tante volte da perdere di potenza semantica; le immagini dolenti della Winehouse, e quella di Etta James con la bocca dischiusa in un canto disperato, cui è vicino concettualmente il quadro che rappresenta due donne abbracciate in un gesto materno di dolore, sono espressione femminili della sofferenza forti, ma isolate; il volto di Pasolini e quello di sua madre, l’angelico ovale del viso del Cristo del Vangelo Secondo Matteo, sono sparsi nella mostra senza la costruzione di un gioco di rimandi sostanziali.
Grande l’artista, ma per goderne appieno aspettiamo la sua prossima mostra.
La Pietà araba di Aranda: immagine che ricorderemo
Originariamente pubblicato su PadPad.eu.
Non sapremo mai chi è questa donna che culla un parente ferito, ma insieme diventano l’immagine vivente del coraggio delle persone comuni che hanno contribuito a creare un capitolo importante nella storia del Medio Oriente. Con queste parole il presidente della giuria del World Press Photo, Aidan Sullivan, ha giustificato la scelta della giuria di quest’anno di premiare la fotografia del giovane fotografo spagnolo Samuel Aranda.
L’immagine del fotoreporter non è altro che l’incarnazione, calata nel contesto del mondo arabo di oggi, della celebre posa della Pietà cristiana. La famosa immagine, cara all’iconografia dell’arte cristiana, da Michelangelo che ne fece la sua ossessione plastica, a Bellini, fino a Rubens e Ribera, è un soggetto fondamentale per decifrare l’arte antica cristiana. Ma non solo. E’ anche il soggetto iconografico ricorrente con cui suole confrontarsi molta arte contemporanea, in fotografia – basti pensare ai recenti scatti di Serrano – e nell’arte di performance: tutti ricordano la celebre azione di Marina Abramović, in cui l’artista abbracciava il corpo del compagno Ulay.
Un’immagine iconica prediletta dagli artisti perché simbolo di amore, di compassione, e incarnazione visiva suprema del dolore, di chi piange la morte di un una persona amata o di una fede amorosa in qualcuno, che poi è tragicamente finita. Dove il soggetto può tingersi anche di elementi politici qualora il Cristo assuma le vesti di un eroe vinto, portatore di una verità scomoda per l’autorità, affermata sino al costo di perdere la vita per essa. Entrambe le sfumature di significato si trovano nella foto di Samuel Aranda: il vinto è un ferito negli scontri con l’autorità rappresentata dal governo yemenita, caduto sotto i colpi della violenza bruta che questo applica per affermare una volontà cieca e tirannica. E una donna lo abbraccia in una vera e propria deposizione, consolandolo dalla sofferenza, e forse dalla morte che lo attende.
Dove lo scatto, è inutile precisarlo ancora una volta, non è il frutto di un set pensato dall’artista fotografo per raccontare una sua visione del mondo, ma scaturisce dell’abilità del reporter nel catturare l’immediatezza di un momento, raccolto nella realtà vera della rivoluzione yemenita. Dove la forza e l’efficacia comunicativa dello scatto di Aranda risiedono nella capacità di rappresentare la realtà attraverso lo strumento del topos visivo, che ha il potere supremo della facile intelligibilità, della fortissima fascinazione simbolica, e di lasciare una traccia nella memoria ben più lunga di qualunque altra immagine. Se la donna in questione, poi, porta il velo nero sugli occhi, questa caratteristica fa sì che essa venga immediatamente identificata come araba. Solo così una foto diventa un simbolo del dolore e del sacrificio del popolo arabo nel suo cammino di emancipazione. Solo così un’immagine è capace di fare il giro del mondo come ha fatto la foto vincitrice dell’anno scorso, il ritratto di Bibi Aisha, la ragazza cui era stato tagliato il naso dai talebani, o come l’indimenticabile foto del 1972 di Nick Ut della bambina vietnamita nuda in fuga dal napalm dei soldati americani.
Se poi, osserviamo la foto con attenzione notiamo che la sua forza risiede non solo nel potere documentario, ma nel suo punto di vista quasi definibile sottilmente artistico: il fotografo non solo è stato testimone di uno spaccato di realtà, ma non tralascia la sua personalissima visione. Che è cristiana, che ha l’occhio di un occidentale su una scena di umanità comune. In altre parole, attraverso uno sguardo che appare parziale, il fotografo – artista ci regala un’unica ed irripetibile immagine di Pietà Musulmana e di una madonna coperta di un velo nero. Sarà per questo motivo che ricorderemo per lungo tempo questa immagine come una grande opera d’arte.
Ansel Adams e la Natura viva in bianco e nero
Originariamente pubblicato su PadPad.eu.
La Natura come non l’avete mia vista, anzi come neanche pensavate potesse essere. Una sinfonia fatta di moltissimi elementi diversi all’interno di una visione perspicua del dettaglio, la cui importanza si fa fondamentale per ricostruire la visione di insieme. Dove l’insieme è il paesaggio, secondo una visione della natura che se da un lato ricorda la prospettiva scientifica dei vedutisti del Settecento, come Canaletto, dall’altro è anche una visione poetica del paesaggio. Quale paesaggio? In questo caso facciamo riferimento non alla Venezia del Settecento, nel suo febbrile rincorresi di attività produttive sullo sfondo dell’incantevole città lagunare, ma all’America delle Montagne Rocciose, quella della Monument Valley ed il Grand Canyon, o del Parco di Yosemite in California: è un paesaggio questo, che, per le sue caratteristiche, esprime forza, potenza, storia millenaria e che per noi europei incarna le caratteristiche proprie dell’America. La bellezza è tutta qui in uno scatto fotografico che, realizzato con un uso magistrale del bianco e nero, che si esprime in tutte le sue possibili gradazioni di colore, è lo strumento per fare di questa natura uno spettacolo di perfezione e purezza.
Questi sono gli elementi fondamentali che sono alla base dell’arte di Ansel Adams, uno dei maestri indiscussi della fotografia storica americana, assieme ad Edward Weston o Alfred Stiegliz, fra i primi a sperimentare le potenzialità della macchina fotografica per raccontare il mondo e le sue forme. A Modena si è appena chiusa la mostra a lui dedicata a presso la Fondazione di Fotografia. Si è trattato di una delle più importanti rassegne a livello europeo dell’opera del fotografo americano, capace di raccoglie un corpus rappresentato da 70 opere, grazie alla collaborazione eccellente con il trust americano dell’artista, e con alcuni collezionisti europei, e i galleristi americani che rappresentano l’artista.
L’esposizione rivela l’eccezionale capacità tecnica del fotografo, peraltro inventore di una tecnica fotografica chiamata sistema zonale, che, sulla base di uno studio delle modalità della luce di impressionare la pellicola, permetteva di mettere a fuoco punti diversi dell’immagine fotografica, e quindi, di cogliere la natura del paesaggio in tutte le sue più dettagliate sfumature. Queste gli permisero di fornire un ritratto del paesaggio americano cui l’occhio del fotografo guarda rappresentando in modo analitico ogni sua piccola parte, fino alla determinazione del tutto. E dove la visione di insieme culmina sempre nella rappresentazione scenografica della wilderness tipica della grande Natura americana.
Le sue doti tecniche furono poi funzionali alla creazione di un movimento chiamato gruppo f/64 che, assieme all’appoggio di Edward Weston e Imogen Cunningham, si faceva promotore, di contro al pittorialismo dominante, di una straight photography, ovvero di una fotografia intesa quale strumento di aderenza perfetta alla realtà. Infine, il suo profondo rigore morale lo spinse a farsi portatore di un corretto atteggiamento di rispetto ecologista nei confronti di quel paesaggio americano che aveva profondamente conosciuto, esplorato, guardato ed amato.