Pubblicato su FPmagazine.eu nel luglio 2017.
Viva Arte Viva, la 57esima Biennale di Venezia curata da Christine Macel, è strutturata come una mostra celebrativa degli artisti e del loro lavoro, che, in un momento di grandi rivolgimenti politici ed economici, sono intesi, nelle parole della stessa curatrice, come ‘la parte più preziosa dell’umanità’. Si tratta di una biennale concepita dalla Macel ‘con gli artisti, degli artisti e per gli artisti, sulle forme che essi propongono, le pratiche che sviluppano e i modi di vivere che scelgono’.
La curatrice, oggi a capo del Centre Pompidou di Parigi, suddivide la mostra in nove sezioni chiamate Padiglioni che, con pretesto di mostrare la molteplicità delle pratiche artistiche, costituiscono in realtà gli strumenti per costruire una mostra che ruota attorno a temi della contemporaneità come l’immigrazione, le pratiche collaborative nel lavoro, il multiculturalismo, la tradizione, fatta con una galleria di artisti dimenticati dalla storia dell’arte, che la Macel recupera per noi. La scelta della marginalità delle pratiche e dei temi rende questa Biennale poco incline alle opere spettacolari, secondo un cambiamento di rotta evidente rispetto alle Biennali precedenti.
Piaccia o non piaccia, è al passo dei tempi.
Il Padiglione centrale dei Giardini si apre con Sam Gilliam, artista americano della Color Field Painting, la cui bandiera colorata collocata sulla sommità dell’edificio, è metafora di libertà di un’arte che si libera del supporto. Il fulcro centrale della mostra del Padiglione è la riflessione su una delle caratteristiche prime del lavoro artistico ovvero l’otium inteso come lavoro intellettuale in opposizione al negotium, mondo degli affari. Il tema è ben illustrato dalle opere di Mladen Stilinović e del maestro austriaco Franz West. L’opera più interessante in questa sezione è l’opera partecipativa del danese Olafur Eliasson, ricreazione di uno studio artistico per la costruzione di lampade ecologiche, laboratorio collaborativo per migranti rifugiati in Veneto, messi al lavoro durante tutto l’arco della mostra.
Al centro del Padiglione Centrale Kiki Smith propone la sua visione cosmica e poetica, in cui la donna e l’uomo si tramuta in figure naturali, intrise di magia. In questa parte della mostra spiccano le opere di Firenze Lai, pittore di Honk Kong le cui pitture, echeggiando uno stile figurativo alla ‘transavanguardia’, sono di grande qualità poetica. Un’altra scoperta è l’artista ungherese Tibor Hajas, i cui Flesh paintings, esposti nel Padiglione delle Gioie e delle Paure, raccontano una pratica fisica bodyartistica e fotografica di grande rigore e potenza.
Nel padiglione dei Libri, costruito attorno alle opere dell’inglese John Latham, troviamo alcuni artisti degni di interesse, come il rumeno Ciprian Muresan, il cui lavoro basato riutilizzo della cultura figurativa classica, che va da Morandi a Masaccio, vien messo in opera con il più classico disegno, realizzato sovrapponendo strati e strati di matita su carta.
Rispetto a Padiglione centrale dei Giardini è dotato di una struttura più coerente, la mostra all’Arsenale segue un ritmo più ripetitivo e noioso nelle sue declinazioni in Padiglioni. Fra le opere più notevoli, si fa notare quella di Petrit Halilaj, giovane kosovaro che fa delle pratiche legate alla tradizione di familiare lo strumento per indagare le radici culturali di un territorio di marginalità. Il ruolo attivo dello spettatore è al centro dell’opera di Franz Erhard Walther, le cui strutture minimali in tessuto, come contenitori vuoti appese alle pareti, acquistano senso solo attraverso la partecipazione del pubblico. Uno dei lavori più interessanti dell’Arsenale è l’opera di Ernesto Neto, scelto come figura intellettuale che incarna l’artista sciamano, che porta durate i giorni dell’opening una popolazione indigena del Brasile, quella degli Huni Kuin, come elementi guaritori di un mondo malato come il nostro.
Gli italiani scelti per la kermesse, invece, sembrano spiccare molto per la qualità delle pratiche. Su tutti si fa notare il bellissimo lavoro di Maria Lai, dedicato al ricamo, tale da implicare il coinvolgimento attivo dell’intera popolazione del paese della nativa Ulassai, nel cuore della Sardegna, intriso di poesia e di tradizione. Infine ricordiamo il lavoro di Riccardo Guarneri, una pittura di delicatezza cromatica morandiana del Padiglione dei colori, e lo storico nome di Giorgio Griffa.
In chiusura della mostra Arsenale, nella sezione dedicata al Colore, è una sorpresa la gigantesca installazione di Matsutani, artista del gruppo Gutai di seconda generazione, sintesi abile fra oggetto, colore e atto performativo: il colore gocciola su una tela messa sul pavimento è una perfetta sintesi di gesto e colore che è tutta ispirazione all’assoluto. Infine nell’ultima sezione dedicata al Tempo e l’Infinito, segnaliamo il lavoro della scultrice polacca Alicja Kwade, che induce alla riflessione sulle caratteristiche spiazzanti della percezione se vincolata allo spazio e al movimento.
Della mostra di quest’anno il Padiglione Italia appare una delle sue espressioni più convincenti: il progetto di Cecilia Alemani che affida a soli tre artisti il compito di sviluppare l’affascinante tema del magico, Roberto Cuoghi, Adelita Husni- Bey e Giorgia Adreotta Calò.
Di Cuoghi, il magnifico laboratorio di ricostruzione dell’immagine del Cristo, visto come cammino di ambigua identificazione con la redenzione, chiaramente ispirato alla stagione degli esperimenti scientifici del Seicento, è oscuro ed affascinante. Interessante è poi il lavoro di Adelita Husni-Bey, video che vede protagonisti dei giovani sul tema dei tarocchi; infine, l’installazione di Giorgia Andreotta Calò, se pure non nuova nei principi, riesce a dare una degna chiusa all’apertura grandiosa di uno dei migliori Padiglioni Italia degli ultimi anni.