Originariamente pubblicato su LuxRevolution.
Milano conferma il suo interesse per la fotografia d’autore, dedicando un’ampia retrospettiva ad una delle artiste americane più interessanti, controverse ed ancora poco conosciute, ossia Francesca Woodman (Denver 1958 – New York 1981). Vera e propria enfant prodige e figlia d’arte, Francesca Woodman comincia ad utilizzare la macchina fotografica a soli tredici anni: dopo nove anni di ricerca intensissima chiude a soli ventidue la propria produzione gettandosi da un balcone di un palazzo di New York. La mostra, in corso fino al 24 ottobre a Palazzo della Ragione a Milano, grazie al contributo essenziale dell’Estate di Francesca Woodman di New York, ricostruisce per la prima volta una parte cospicua del corpus del suo lavoro.
Basata su un percorso di 116 opere e cinque video, l’esposizione, attraverso una galleria di immagini di piccolo formato, ci conferma l’assoluta irriducibilità ad ogni possibile etichetta del lavoro della Woodman, che resta continuamente in bilico fra il diario personale, il confronto con il genere classico dell’autoritratto, e il naturale dialogo con l’arte concettuale e la coeva body art.
L’artista soleva giustificare la scelta di utilizzare il suo stesso corpo come soggetto e oggetto delle immagini, perché questo era sempre pronto, disponibile e a portata di mano.
Ma non è questa la sola ragione. Il corpo nel lavoro della Woodman è lo specchio del rapporto ossessivo fra l’io e lo spazio del mondo racchiuso in una stanza: questo costituisce lo strumento autentico per approfondire un discorso personale sull’io e la sua identità, e il suo mascheramento nel doppio. Una fotografia in cui l’estetica del corpo (come in Senza titolo, Providence, 1975, che ci richiama Mapplethorpe per la presenza della calla), non prende mai il sopravvento, ma è sempre veicolo di un approccio concettuale del tutto peculiare, il cui rigore è diluito dalla spontaneità della tecnica dell’autoscatto.
Accanto al corpo, altro elemento primario nel lavoro della Woodman, è lo spazio, incarnato nella maggioranza dei casi dagli appartamenti spogli sull’orlo della demolizione in cui l’artista amava condurre le lunghe sessioni fotografiche, concepite come vere e proprie performance. Questi spazi diventano luoghi pieni di echi e di atmosfere, espressione di una dimensione esistenziale vissuta con intensità; quando poi il corpo si fonde con le memorie rappresentate dai mobili e dagli oggetti umani, le stanze si tingono di un’emotività vibratile e sensibile, quanto oscura.
La peculiare pratica fotografica della Woodman richiama naturalmente le coeve forme di body art. Eppure più che ricondurre il lavoro della Woodman a quello di Cindy Sherman, è più facile ricollegarlo a quella body art che predilige la rappresentazione del corpo come oggetto, o macchina simbolica: mi riferisco ai primi lavori di Rebecca Horn (come in Then at one point I did not need to translate the notes; they went directly to my hands, Providence, Rhode Island, 1976), dove il corpo ritratto è oggettualizzato quasi a divenire una installazione. Anche laddove questo è torturato o martirizzato, esso è strumento per costruire uno scenario mitico, simbolico, archetipico che trova i referenti diretti nei padri della fotografia americana da Eliot Erwitt a Man Ray e nella statuaria classica.
La mostra offre anche il saggio dell’inedita capacità spaziale dell’artista, con un’installazione composta di quattro fotografie di grande formato, dal titolo Swan Song (1978), di cui viene ricreata l’originale mise en scène: Francesca, facendosi beffa dell’altezza d’occhio dello spettatore, gioca con ironia e destrezza con lo spazio ridotto dell’angolo della stanza.