Originariamente pubblicato su LuxRevolution.
Una notizia recente è quella della consacrazione di alcune artiste donne. Se è accaduto nel cinema con il conferimento dell’Oscar per la miglior regia a Kathryn Bigelow, anche nell’arte contemporanea si può dire stia accadendo lo stesso. E’ in corso in questi giorni la retrospettiva che il MOMA di New York dedica a Marina Abramović, storica body-artista, mentre esce nelle sale il film Women Without Men della celebre video artista Shirin Neshat, già premiata allo scorso festival del cinema di Venezia con il Leone d’Argento.
Lungo è l’elenco delle talentuose artiste donne: dalla pittrice anticonformista nell’America degli anni Trenta Georgia O’Keffe, alla scultrice Eva Hesse, a Cindy Sherman, trasformista nelle diverse incarnazioni della donna ‘a più dimensioni’, alla performer cubana Ana Mendieta, fino alla Abramović, la Beecroft e la Neshat. Molte di queste artiste non rinunciano al loro punto di vista rigorosamente femminile; molte di queste usano il loro corpo come strumento espressivo per dare forma ad uno sguardo sul mondo che è sempre tangenziale, controverso, particolare.
La capostipite delle artiste donne delle ultime generazioni è stata certamente Frida Kahlo, definita da Diego Rivera come la prima donna della storia dell’arte che con onestà assoluta e senza compromessi ha trattato alcuni soggetti specifici che riguardano le donne. La pittrice messicana di origini ebraico-ungheresi è in esposizione sino al 25 aprile 2010 al Palazzo delle Belle Arti di Bruxelles con Frida y Su Mundo. La mostra, che presenta un gruppo di venticinque opere provenienti dal Museo Olmedo, ossia la più grande collezione privata dedicata alla sua opera, ci permette di entrare nella dimensione di una grandissima pittura figurativa, mai disgiunta dalla sofferta condizione di donna.
La sua arte è pensata come affascinante dialogo con l’immagine di se stessa, mai vista secondo una dimensione intellettuale, ma sempre come strumento indagatore della propria turbolenta vicenda esistenziale. La carriera della Kahlo è indissolubilmente connessa alla biografia coraggiosa e affascinante, segnata dal matrimonio con il più anziano di lei muralista Diego Rivera, e dalla sofferenza fisica causata delle malattie, dagli aborti e dai ripetuti tradimenti del marito. Un’esistenza condotta a dispetto delle regole convenzionali ai vertici dell’intellighenzia artistica messicana di sinistra, che portò i due coniugi a lavorare negli Stati Uniti, e li mise in contatto con eminenti personaggi dell’epoca; fra cui per citarne uno Lev Trotsky, che fu amante di Frida.
L’autoritratto è concepito dalla Kahlo come specchio di sé e modo per mettere continuamente in questione il proprio modo di percepire il suo essere nel mondo nei diversi momenti della vita: la sua arte è una sorta di body art ante litteram, tradotta nel linguaggio di una pittura molto tradizionale, e reinterpretata alla luce dell’immaginario surrealista. In mostra se ne trovano alcuni, fra i quali il celeberrimo Autorretrato con Changuito (1945), effigie del volto di Frida circondato dalle scimmie e dai totem tribali della tradizione messicana. Accanto a questo si trova l’altrettanto noto dipinto La Columna Rota (1944), dove il dolore fisico alla colonna vertebrale è perfettamente interpretato dall’immagine dell’autoritratto della donna che piange sorretta da una colonna in frantumi. Bello e poco conosciuto il lavoro La màscara (de la locura) (1945), dove l’autrice, ritratta con gli abituali panni tradizionali, porta una maschera impassibile sul volto, sotto la quale nasconde il dolore: una perfetta incarnazione dell’ambiguità fra forza e fragilità femminile.
Uno dei motivi dominanti della biografia di Frida e dunque, della sua pittura, è il tema del dolore: i quadri più intensi sono quelli in cui l’artista denuncia in modo indiretto i problemi con il cibo, i numerosi aborti, le pene fisiche alla spina dorsale che la inchiodavano al letto, e le sofferenze che il Rivera mujeriego le riservava. In mostra troviamo la tela in cui descrive l’omicidio di un uomo sulla sua amata, metafora delle sofferenze che le inferse Rivera: nell’opera Unos cuantos piquetitos (1935), i capezzoli della donna sono altrettante macchie di sangue che invadono il quadro fino a ricoprire completamente lo spazio della cornice. L’opera Hospital Henry Ford (1932), racconta il fatto biografico dell’aborto avvenuto a Detroit mentre Rivera dipingeva in quella fabbrica, descritto in modo straziante, coraggioso, tenero e visionario. Nell’opera Sin esperanza (1945), l’anoressia è rappresentata dall’autoritratto di Frida a letto, incapace di inghiottire i cibi calati nella sua bocca da un grosso imbuto collocato sulla sommità della sua testa.
Opere brillanti del talento che fecero di lei l’eroina del surrealismo extraeuropeo, amata da Breton, sono invece il Retrato de Luther Burbank (1951), ritratto del famoso botanista, morto prima che Frida e Diego potessero andare negli Stati Uniti, effigiato in una tela in cui il corpo del medico defunto diventa la radice per un albero in rigoglio: si tratta di una splendida allegoria del fiorire dell’eredità umana ed intellettuale. Espressivo e potente è il dipinto Mi nana e yo (1937), in cui l’autrice si raffigura come fragile neonata attaccata al seno della sua forte nutrice, suo alter ego, il cui volto è coperto da una maschera tribale. Infine il grande talento nel disegno della Kahlo, mai secondo a quello del più famoso marito, si ritrova nei quattro disegni e nei due dipinti che chiudono la rassegna, ovvero El retrato del ingeniero Eduardo Morillo Safa, e El retrato del Doña Rosita Morillo, entrambi del 1944. In quest’ultimo lavoro, ruggente di rossi bruniti, la pittrice colloca il volto vivissimo dell’anziana committente su un bellissimo letto di fiori e di foglie autunnali, a costruire una sofisticata e potente metafora del ciclo della vita e della morte.