Il 13 febbraio 2013 è scomparso Gabriele Basilico, lo ricordiamo con questa intervista con Glenda Cinquegrana pubblicata originariamemte in due parti il 19 e 21 ottobre 2011 su Globalist.it.
Glenda Cinquegrana: Partiamo dal passato. Negli anni Settanta c’era il reportage, poi negli anni Ottanta nasce la fotografia di paesaggio.
Gabriele Basilico: In quegli anni Ottanta il mio interesse si concentrava sulla forma dello spazio, come se questa potesse rappresentare la forma del vivere. Questo costituiva un credo forte nel mio lavoro di quegli anni. Mi pongo di fronte alla città come un anatomo-patologo: se guardo il corpo di una persona cerco di capire qual è la sua vita a, come si muove, che cosa mangia e chi frequenta. Lo stesso accade quando guardo alla città: se l’abito fa il monaco, la morfologia del territorio crea i luoghi e le persone che li abitano. Ma resterei fuor di metafora: l’anatomo-patologo osserva i cadaveri..
Quali sono stati i riferimenti del lavoro di quegli anni?
In quel periodo che precede l’esplosione della fotografia della scuola di Düsseldorf, sento che la mia formazione come fotografo è stata influenzata non tanto dalla frequentazione delle mostre, quanto dalla lettura dei libri di fotografia. In quel momento acquistavo negli Stati Uniti diversi libri che in Italia non arrivavano.
Quali autori stranieri ti interessavano?
Il primo riferimento di forte importanza per mio lavoro è stato un fotografo conosciuto in quegli anni attraverso i libri: mi riferisco a William Klein. William Klein aveva realizzato alcuni anni prima quattro libri celebri dedicati alle città, di cui uno su New York, uno su Mosca, un altro su Tokyo, e infine su Roma. Erano quattro libri impaginati da lui, con fotografie apparentemente sgrammaticate, molto nere, molto forti, nelle quali l’obiettivo era molto vicino al soggetto. Queste opere mi apparivano straordinarie. Nessuno di noi fotografi aveva visto niente di simile in quegli anni. Con il ‘noi’ non mi riferisco solo ai fotografi della mia generazione, che erano esordienti negli anni Settanta, ma anche a coloro che consideravamo i nostri maestri, ossia Gianni Berengo Gardin e Ugo Mulas. Anche loro subirono certamente la stessa suggestione. Personalmente lo notavo nei loro lavori, ma anche negli obiettivi che usavano. Me ne accorgevo, poi, quando noi fotografi ci trovavamo sul campo, e noi giovani avevamo finalmente l’occasione di osservare come i maestri si comportavano fisicamente: i maestri di quegli anni avevano la tendenza ad avvicinarsi molto ai soggetti. Non si faceva molto lavoro a cavalletto in quel periodo, ma si usavano macchine leggere come le Nikon, le Leica. Questo derivava dall’influenza che aveva avuto su di noi il lavoro di William Klein.
Dopodichè sono arrivati i Becher.
Sì. Le immagini dei Becher esposte alla galleria di Marco Valsecchi in via Santa Marta a Milano nel 1976 mi hanno come risvegliato da un sonno: hanno completamente cambiato la mia vita. In quella mostra ricordo mi colpì moltissimo quella serie di oggetti industriali tutti in fila in un catalogo, veri e propri ritratti frontali di oggetti allineati come fossero un esercito.
Qual era l’aspetto che più ti colpiva di quelle foto? L’isolamento, l’oggettualità delle architetture?
Sì. Innanzitutto l’oggettualità, il senso dell’isolamento. Il lavoro era ‘archeologico’, poiché che si trattava di oggetti in disuso, quindi abbandonati. C’era un senso di solitudine; ma l’atto di raccoglierli tutti, incasellati come in un ossario, dava loro un senso di collettività. La catalogazione nel lavoro dei Becher per me è un elemento fondamentale della mia poetica. Una delle cose che mi ha influenzato maggiormente è il senso dell’infinito, ovvero l’ossessione che si percepiva, nel lavoro dei due fotografi, di non riuscire a chiudere la serie. Questa cosa per me è stata fortissima.
Da qui nasce il lavoro sulle fabbriche di Milano.
E’ vero. Anche quel lavoro sulle fabbriche è animato dallo stesso desiderio di non finire mai. Mi muovevo nella città fra ispirazione e follia, e guidato dal senso del possesso della città. Alla base di quell’ossessione di fotografare tutto si trova l’illusione che tu possa diventare una parte della città, e che al tempo stesso la città possa diventare qualcosa di privato, qualcosa di tuo. Era come un desiderio di metabolizzare la città: di restituirla, vomitandola, e al tempo stesso di ricomporla in modo preciso, per mezzo delle fotografie che rispecchiano un ordine definito.
Nel tempo percepisci un’evoluzione stilistica nel tuo lavoro? Ad esempio, nel lavoro degli anni Ottanta più minimalismo, e negli anni successivi maggiore libertà di narrazione?
Sulla narrazione ho delle riserve. A me piace raccontare, ma riesco a farlo attraverso la costruzione di un libro. Appartengo a quella categoria di fotografi che hanno sviluppato la propria storia e i propri miti attraverso i libri. Un libro rappresenta un progetto: ha una stampa, una sequenza di immagini, ed un modo di essere che deriva dall’atto di sfogliare le pagine e, quindi, un suo modo di tenere un ritmo. In un libro è lo sviluppo narrativo della sequenza delle immagini che racconta il tuo lavoro. Ancora oggi nell’esercizio della fotografia riesco a pensare alla narrazione solo all’interno dello processo di creazione di un libro.
G.C: Parliamo ora dello stile documentario come scelta di poetica: come mai questo costituiva un’efficace scelta di metodo di approccio alla realtà del tempo?
G.B.: A partire dagli anni Ottanta in avanti, il paesaggio ha cominciato a costituire oggetto di interesse per il lavoro dei fotografi, dall’America all’Italia. Mi riferisco, ad esempio, al progetto di Viaggio in Italia curato da Luigi Ghirri, che includeva tutti i fotografi di quella generazione. Questo interesse per il paesaggio nasceva da particolari condizioni storiche e sociali: in quel periodo le città stavano cambiando, e si registrava il passaggio dall’epoca della fine dell’era industriale verso quella post-moderna. Per i politici, per gli urbanisti e per coloro che si occupavano della forma del territorio era difficile capire il presente ed immaginare il futuro. In quel contesto, la fotografia, grazie al suo potere di rappresentazione e di figurazione poetica, da semplice mezzo di misurazione dello spazio, è diventata lo strumento per guardare al paesaggio da angolazioni diverse: uno strumento con cui specchiarsi, per non cadere nel cul de sac della difficoltà di immaginare il mondo. Da quel momento in poi c’è stato un forte esercizio del ritratto dei luoghi, e la grande tradizione dello stile documentario è diventata uno strumento efficace laddove questo permetteva di avere da un lato la precisione di racconto, ma dall’altro di raccontare cose che appartengono all’intimità di chi guarda. Io ed altri fotografi ci siamo sentiti investiti di una cultura della tradizione e abbiamo continuato questa poetica con fedeltà di scrittura.
Con l’avvento della post-modernità come è cambiato, o sta cambiando il modo di rapportarsi del fotografo con la realtà che ci circonda?
Il paesaggio costituisce ancora nella cultura egemone il riferimento di interesse e la fonte dei contenuti della fotografia. L’era della cultura digitale, con la sua visione del luogo visibile e accessibile a tutti e da ogni luogo, ha ridotto gli spazi di utilità della fotografia documentaria. Il fotografo oggi tende a vivere la sua esperienza ai margini del campo visivo e a raccontare il suo punto di vista fra i tanti possibili, senza ricercare quadri di riferimento.
Se il fotografo è privato della missione di mappatura del territorio, e di ricostruire un’immagine del mondo secondo un proprio sistema di riferimento e di metodo, cosa può fare? Quale può essere il ruolo del fotografo oggi nella realtà contemporanea?
L’era del digitale ha aperto territori ben più ampi di quello che si poteva prevedere a quegli artisti che usano la fotografia quale strumento di intervento e di riflessione sulle caratteristiche proprie del linguaggio della cultura digitale.
Qual è la tua risposta personale a questo cambiamento di paradigma?
Personalmente ritengo che finchè le immagini di paesaggio sono ancora in grado di costruire un triangolo emotivo e concettuale fra i luoghi, chi le scatta, e chi le guarda, la fotografia documentaria, intesa come metodo di ancoraggio alla realtà, sarà una valida risposta.
Gabriele Basilico, il genio del bianco e nero, si è spento all’età di 69 anni.