Originariamente pubblicato su PadPad Revolution.
Silenzio. Nello spazio vuoto e bianco del museo, risuona il rintocco di un metronomo, i cui battiti scandiscono i secondi di un tempo che sembra lunghissimo. Gli occhi, che sono chiusi, intravedono sotto le palpebre la luce della stanza, nella quale presupponi ci sia il movimento dei visitatori; le orecchie, invece, restano racchiuse in una cuffia che ti impedisce di sentire null’altro se non il battito dell’orologio e il rumore del tuo respiro.
Questa è la sensazione che ha chi partecipa alla sessione della performance di Marina Abramović: ovvero quella, piacevole o disturbante che sia, di essere completamente consegnato a te stesso, al proprio io, alle sensazioni recondite e alle paure inconfessate, e contemporaneamente di essere offerto in pasto al pubblico, sotto forma di living sculpture. Dove tu, fragile di fronte a te stesso, sei in quello stesso momento oggetto attenzione da parte dei visitatori, che non solo ti possono guardare, ma perfino scrutare, se vogliono, da un binocolo che si trova sul ballatoio del PAC.
Ecco in che cosa costituisce il Metodo Abramović per un partecipante alla performance che è in corso in questi giorni al PAC fino al prossimo 10 giugno, nella quale l’artista serba, vera madrina dell’arte di performance internazionale, consegna l’eredità del suo lavoro performativo degli ultimi anni. In questa occasione l’artista sperimenta in modo ancora più profondo e cosciente l’importanza del ruolo del pubblico nella performance.
The Abramović Method nasce da una recente consapevolezza raggiunta da Marina a seguito dell’estenuante sessione di 75 giorni di performance, intitolata the Artist is present, da lei conseguiti al MOMA di New York, nella quale essa ha affrontato quotidianamente per sette ore il pubblico del museo, che, seduto davanti a lei, era chiamato ad interagire con l’artista, a sua volta seduta dall’altro capo del tavolo. In questa ultima opera l’artista prosegue lungo la direzione della concettualizzazione della performance: in the Abramović Method essa non vi partecipa attivamente, lasciando che pubblico, sia esso quello attivo, ovvero dei partecipanti, sia esso quello passivo, fatto di chi vi assiste, ne costituisca quasi il solo elemento fondamentale. Il secondo strumento dell’azione performativa è rappresentato dagli oggetti che si trovano negli spazi del museo, strutture minimali leggere come gabbie, sedie e giacigli di legno, concepiti sotto forma di sculture di minerali, che fungono da catalizzatori di un corto circuito energetico fra attori e spettatori.
In questo articolo vi racconto la mia personalissima esperienza a The Abramović Method. In un pomeriggio di un giorno feriale mi trovo a far parte del pubblico della performance, che è formato da una ventina di persone fra visitatori e partecipanti, causalmente riuniti per l’occasione, e seduti nella sala del PAC davanti allo schermo. Marina parla attraverso il video, e chiede ai performer di cederle due ore del loro tempo, in cui, in base al contratto siglato con lei, il loro compito, semplice e al tempo stesso difficilissimo, sarà quello di affrontare se stessi, trovarsi davanti al proprio io al di là della banalità del quotidiano: quindi, di vedere con gli occhi chiusi ciascuno il proprio stato di coscienza, e di sostarvi per un tempo sufficientemente lungo. Il tutto sotto gli occhi dei visitatori curiosi. Lo scopo viene realizzato tramite la messa in atto di una forma di deprivazione sensoriale, forma di isolamento dell’individuo, calata nella pratica in tre posizioni base del corpo umano, ovvero quella in piedi, quella da distesi, a quella da seduti.
La performance sembra lunghissima. Il tempo, scandito dai rintocchi del metronomo, durante il quale non puoi che chiederti che cosa stia accadendo fuori, sembra non passare mai, mentre sei isolato e obbligato a non muoverti. Solo di fronte ai tuoi pensieri, mentre intuisci che gli spettatori si trovano davanti a te. Una sensazione difficile da paragonare ad altre, vicina ad una forma di meditazione, cui si somma il brivido della consapevolezza di essere in quel momento parte di uno spettacolo.
Una meditazione che diventa condizione difficile perché è obbligata in limiti precisi di spazio e tempo: perché non puoi muoverti o andare via, o rompere l’isolamento, perché hai firmato un contratto con Marina; e mentre senti il rumore dei secondi che passano, ti trovi ad affrontare il limite della tua volontà, combattuta fra il resistere e il liberarsi. Dove l’unico momento di pausa in questo ascoltare il flusso di coscienza è dato dal tocco alla spalla delle assistenti, che ti conducono gentilmente e freddamente alla prossima posizione.
Il tempo appare passare immobile ed in modo immisurabile. Al termine delle due ore, quando riprendi pienamente coscienza di te collocato nello spazio del museo, è difficile capire quello che hai percepito tu e quello che ha visto il pubblico che avevi di fronte. Impossibile poi è confrontare con gli altri partecipanti le esperienze che ciascuno ha vissuto: tutto ciò che è stato performance è stato strettamente dipendente dall’hic et nunc del momento, dal tuo stato d’animo e da una serie di variabili imprevedibili, quali la quantità di pubblico presente, e il tuo stato fisico e mentale.
Assieme al bagaglio di se stesso, ciascuno è stato un’opera unica e irripetibile. E per averci dato questa occasione dobbiamo ringraziare la grandissima Marina.