Il diario che si fa arte

Pubblicato su FPmagazine.eu  nel febbraio 2017.

Fondazione Prada apre l’Osservatorio, spazio dedicato alla fotografia collocato in uno degli edifici al centro della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, che dai suoi due piani offre una splendida vista sulla cupola in ferro e vetro dell’architetto Giuseppe Mengoni. La mostra di apertura è Give Me Yesterday, curata da Francesco Zanot, ed è dedicata al tema del diario personale riletto attraverso quattordici autori appartenenti alle giovani generazioni, che cresciuti nell’era di Facebook e dei blog, sembra non possano quasi prescindere da questo genere fotografico. Leggi tutto “Il diario che si fa arte”

Mostre senza barriere

Prima scena: pomeriggio di sabato milanese. Lo scenario è quello di uno dei musei più conosciuti della città: spazio molto bello, mostre generalmente interessanti. L’esposizione è dedicata a un’artista che non conosciamo, né io né l’amica che mi accompagna, per cui affrontiamo la visita armate di desiderio di scoperta.
Entriamo nello spazio e troviamo poche indicazioni sulle opere; didascalie piccole e messe in posti difficili; nessun pannello riassuntivo all’ingresso, nessuna scheda sotto le didascalie. In più la mostra è realizzata in un ambiente unico, in cui alcune opere fanno da separè per definire diverse aree di spazio, che intuiamo sono state scelte per disporre lavori, forse appartenenti a tempi diversi e magari a filoni di ricerca diverse.
Vaghiamo per lo spazio senza aver capito molto: si tratta di un lavoro dedicato a cosa? Una scultura che gioca con il significato della funzione, sul senso di straniamento degli oggetti? Alla fine del percorso finalmente scopriamo degli schermi video messi in fondo alla sala che finalmente ci spiegano la natura misteriosa di questo lavoro. Usciamo dal museo piuttosto confuse: il risultato è la sensazione di vedere un film riavvolgendo il nastro a partire dalla fine.

Thomas Struth (1990) Art Intitute of Chicago II
Thomas Struth (1990)
Art Institute of Chicago II
Chromogenic print
cm 180 x 215

Seconda scena: Milano un pranzo organizzato da uno spazio che fa eventi e presentazioni di nuove tendenze. Mi trovo davanti tre ragazze giovani e sveglie che raccontano il loro progetto che, nato da un blog di riflessioni, si è trasformato per loro in un vero lavoro di consulenza legato proprio ai musei. Il loro blog si intitola Musei senza Barriere, ed è rivolto innanzitutto ad aprire una finestra di dialogo sui modi per migliorare l’accessibilità dei musei rispetto ad alcune problematiche specifiche, come la disabilità fisica (sia essa percettiva, cognitiva, relazionale, ma anche solo e semplicemente fisica), fino ad arrivare a ricomprendere proprio quella comunicativa, che forse è la barriera invisibile, ma anche la più insidiosa e comune. Soprattutto quando facciamo riferimento a quei musei, come quelli di arte contemporanea, il cui linguaggio è difficile da capire se non fai il curatore, se non hai visto almeno 12.000 mostre o se non ha in libreria tutti numeri di Flash Art.

Ho scoperto, malgrado i miei stessi pregiudizi, che quello che ai tempi dell’università era un tema da libri museografia scritti da post -sessantottine animate dalla missione di migliorare il mondo – tanto piene di grazia quanto di pregiudizi ideologici – può diventare un argomento interessante, fatto di esperienza, cultura e professionalità. Loro, le tre ragazze, ovvero Maria Chiara, Paola e Claudia, parlano di questi argomenti senza tabù, con garbo e serietà. Niente aria di missionarie impegnate in un’impresa di civilizzazione dei popoli bantù, ma occhio operativo e pratico anche quando si arriva all’argomento delicato della ‘disabilità mentale’. E la discussione si fa molto ricca di spunti quando un ragazzo in sedia a rotelle racconta delle sue esperienze dirette, ed un altro ragazzo che lavora nel turismo per disabili, che spiega come la visita ad un museo sia per quelle persone un’esperienza anche solo di svago e di ricerca di stimoli.

E così arriviamo al succo: la disabilità, più che una barriera fisica, spesso è una barriera culturale che sovrapponiamo fra noi e gli altri. Un pregiudizio che nasce dalla difficoltà di aprire la mente all’altro. Ma anche che chi non pensa di voler comunicare anche con te, in un momento ti trasforma in un disabile anche quando non lo sei affatto.