Giotto L’Italia

Giotto, Polittico di Badia
Giotto, Polittico di Badia

E’ in corso a Palazzo Reale di Milano fino a fine ottobre, la mostra – evento di chiusura della stagione artistica milanese dell’anno di Expo, Giotto L’Italia. L’ esposizione, posta sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana, promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e dal Comune di Milano – Cultura, con il patrocinio della Regione Lombardia, è prodotta e organizzata da Palazzo Reale e dalla casa editrice Electa, con un progetto scientifico di Pietro Petraroia e Serena Romano. Leggi tutto “Giotto L’Italia”

Io opera d’arte per Marina Abramović

Originariamente pubblicato su PadPad Revolution.

Marina Abramovic attends 'The Abramovic Method'
MILAN, ITALY – MARCH 19: Marina Abramovic attends ‘The Abramovic Method’ – Press Preview at PAC on March 19, 2012 in Milan, Italy. (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Silenzio. Nello spazio vuoto e bianco del museo, risuona il rintocco di un metronomo, i cui battiti scandiscono i secondi di un tempo che sembra lunghissimo. Gli occhi, che sono chiusi, intravedono sotto le palpebre la luce della stanza, nella quale presupponi ci sia il movimento dei visitatori; le orecchie, invece, restano racchiuse in una cuffia che ti impedisce di sentire null’altro se non il battito dell’orologio e il rumore del tuo respiro.

Questa è la sensazione che ha chi partecipa alla sessione della performance di Marina Abramović: ovvero quella, piacevole o disturbante che sia, di essere completamente consegnato a te stesso, al proprio io, alle sensazioni recondite e alle paure inconfessate, e contemporaneamente di essere offerto in pasto al pubblico, sotto forma di living sculpture. Dove tu, fragile di fronte a te stesso, sei in quello stesso momento oggetto attenzione da parte dei visitatori, che non solo ti possono guardare, ma perfino scrutare, se vogliono, da un binocolo che si trova sul ballatoio del PAC.

Ecco in che cosa costituisce il Metodo Abramović per un partecipante alla performance che è in corso in questi giorni al PAC fino al prossimo 10 giugno, nella quale l’artista serba, vera madrina dell’arte di performance internazionale, consegna l’eredità del suo lavoro performativo degli ultimi anni. In questa occasione l’artista sperimenta in modo ancora più profondo e cosciente l’importanza del ruolo del pubblico nella performance.

The Abramović Method nasce da una recente consapevolezza raggiunta da Marina a seguito dell’estenuante sessione di 75 giorni di performance, intitolata the Artist is present, da lei conseguiti al MOMA di New York, nella quale essa ha affrontato quotidianamente per sette ore il pubblico del museo, che, seduto davanti a lei, era chiamato ad interagire con l’artista, a sua volta seduta dall’altro capo del tavolo. In questa ultima opera l’artista prosegue lungo la direzione della concettualizzazione della performance: in the Abramović Method essa non vi partecipa attivamente, lasciando che pubblico, sia esso quello attivo, ovvero dei partecipanti, sia esso quello passivo, fatto di chi vi assiste, ne costituisca quasi il solo elemento fondamentale. Il secondo strumento dell’azione performativa è rappresentato dagli oggetti che si trovano negli spazi del museo, strutture minimali leggere come gabbie, sedie e giacigli di legno, concepiti sotto forma di sculture di minerali, che fungono da catalizzatori di un corto circuito energetico fra attori e spettatori.

In questo articolo vi racconto la mia personalissima esperienza a The Abramović Method. In un pomeriggio di un giorno feriale mi trovo a far parte del pubblico della performance, che è formato da una ventina di persone fra visitatori e partecipanti, causalmente riuniti per l’occasione, e seduti nella sala del PAC davanti allo schermo. Marina parla attraverso il video, e chiede ai performer di cederle due ore del loro tempo, in cui, in base al contratto siglato con lei, il loro compito, semplice e al tempo stesso difficilissimo, sarà quello di affrontare se stessi, trovarsi davanti al proprio io al di là della banalità del quotidiano: quindi, di vedere con gli occhi chiusi ciascuno il proprio stato di coscienza, e di sostarvi per un tempo sufficientemente lungo. Il tutto sotto gli occhi dei visitatori curiosi. Lo scopo viene realizzato tramite la messa in atto di una forma di deprivazione sensoriale, forma di isolamento dell’individuo, calata nella pratica in tre posizioni base del corpo umano, ovvero quella in piedi, quella da distesi, a quella da seduti.

La performance sembra lunghissima. Il tempo, scandito dai rintocchi del metronomo, durante il quale non puoi che chiederti che cosa stia accadendo fuori, sembra non passare mai, mentre sei isolato e obbligato a non muoverti. Solo di fronte ai tuoi pensieri, mentre intuisci che gli spettatori si trovano davanti a te. Una sensazione difficile da paragonare ad altre, vicina ad una forma di meditazione, cui si somma il brivido della consapevolezza di essere in quel momento parte di uno spettacolo.

Una meditazione che diventa condizione difficile perché è obbligata in limiti precisi di spazio e tempo: perché non puoi muoverti o andare via, o rompere l’isolamento, perché hai firmato un contratto con Marina; e mentre senti il rumore dei secondi che passano, ti trovi ad affrontare il limite della tua volontà, combattuta fra il resistere e il liberarsi. Dove l’unico momento di pausa in questo ascoltare il flusso di coscienza è dato dal tocco alla spalla delle assistenti, che ti conducono gentilmente e freddamente alla prossima posizione.

Il tempo appare passare immobile ed in modo immisurabile. Al termine delle due ore, quando riprendi pienamente coscienza di te collocato nello spazio del museo, è difficile capire quello che hai percepito tu e quello che ha visto il pubblico che avevi di fronte. Impossibile poi è confrontare con gli altri partecipanti le esperienze che ciascuno ha vissuto: tutto ciò che è stato performance è stato strettamente dipendente dall’hic et nunc del momento, dal tuo stato d’animo e da una serie di variabili imprevedibili, quali la quantità di pubblico presente, e il tuo stato fisico e mentale.

Assieme al bagaglio di se stesso, ciascuno è stato un’opera unica e irripetibile. E per averci dato questa occasione dobbiamo ringraziare la grandissima Marina.

Marlene Dumas a Milano: una mostra poco riuscita

Pubblicato originariamente su Globalist.ch.

Marlene Dumas, 2011, Ecce Homo
Marlene Dumas, 2011, Ecce Homo, olio su tela, 200x 100, courtesy collezione privata

Al Palazzo delle Stelline a Milano sono in mostra, dal 13 marzo al 17 giugno 2012, una quindicina di opere dell’artista sudafricana Marlene Dumas: l’esposizione comprende nuclei di opere della sua produzione più recente, di cui alcune appositamente realizzate per lo spazio dell’ex collegio delle orfane delle Stelline, altre tratte dalla mostra londinese intitolata Forsaken e altre che sono ispirate a personaggi che per l’artista incarnano l’identità italiana, fra cui Pierpaolo Pasolini, e l’Anna Magnani di Mamma Roma. Nella mostra l’artista, distaccandosi dall’erotismo declinato al femminile che ha caratterizzato la sua produzione più celebre e richiesta, approfondisce il tema della sofferenza e dei destini ad essa legati, sintetizzati nell’immagine iconica del Cristo Crocifisso.

Il talento dell’artista olandese è innegabile ed evidente nella capacità di dipingere con pennellate sottili, che ricordano quasi più la tempera che l’olio vero e proprio, in i cui pochi tratti, di matrice espressionista, riescono a riassumere tutti i caratteri di una scena o di un personaggio, accostando colori opposti o complementari con grande abilità e destrezza. In queste opere il lavoro pittorico è costruito nel contrasto fra i colori scuri, bitumosi, e le trasparenze sottilissime, dove il colore persegue il raggiungimento di una fortissima sintesi espressiva.

Eppure la mostra, che è incentrata su nuclei diversi, appare disorganica e priva di un centro concettuale forte, concepita come è tramite l’accostamento di gruppi di opere diverse, in cui spiccano alcuni momenti pittorici felici sul progetto visto nella sua globalità: soprattutto i ritratti di piccolo formato, e il nucleo della opere tratte da una serie di immagini dell’archivio dell’ex collegio delle orfane. Bello il piccolo dittico Three Night e Three Day, che rappresenta il chiostro delle Stelline di notte e di giorno, e le due pitture che tratteggiano due orfane in mantello nero, che si stagliano sul fondo fatto di pennellate grigie e scure.

Proseguendo lungo la mostra, il tema visivo del Cristo Crocifisso diventa grido ripetuto in modo ossessivo: il Cristo in croce, simbolo dell’abbandono al momento della morte dal Dio-padre, cui si ricollega il grido dell’Anna Magnani, è ripetuto tante volte da perdere di potenza semantica; le immagini dolenti della Winehouse, e quella di Etta James con la bocca dischiusa in un canto disperato, cui è vicino concettualmente il quadro che rappresenta due donne abbracciate in un gesto materno di dolore, sono espressione femminili della sofferenza forti, ma isolate; il volto di Pasolini e quello di sua madre, l’angelico ovale del viso del Cristo del Vangelo Secondo Matteo, sono sparsi nella mostra senza la costruzione di un gioco di rimandi sostanziali.

Grande l’artista, ma per goderne appieno aspettiamo la sua prossima mostra.

Sex and the city: Mapplethorpe in mostra a Milano

Pubblicato originariamente su globalist.it.

Robert Mapplethorpe, Tulipani, 1987
Robert Mapplethorpe – Tulipani – 1987 – © Robert Mapplethorpe Foundation

Nella fotografia Robert Mapplethorpe perseguiva la ricerca della purezza estetica e il rigore formale. In altre parole la perfezione. Ovvero, tutto quello che non c’è nella vita reale. E in particolare nella sua, una vita vissuta nella New York trasgressiva degli anni Settanta e Ottanta, in cui l’arte coincideva con l’esistenza condotta lungo i limiti della sperimentazione sessuale e delle droghe, in un ambiente in cui si mischiavano artisti, musicisti ad attori teatrali, di film pornografici e di performance. E dove tutto accadeva su un palcoscenico creativo d’eccezione quale era quello della metropoli newyorchese fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, fucina creativa in cui convivevano i New Dada di Rauschenberg e Andy Warhol con la Factory, i Velvet Underground e i Talking Heads, la street-art in chiave pop di Keith Haring e quella in versione pittorica post-moderna di Jean-Michael Basquiat. Leggi tutto “Sex and the city: Mapplethorpe in mostra a Milano”