Gabriele Basilico e la fotografia tra passato e futuro

Il 13 febbraio 2013 è scomparso Gabriele Basilico, lo ricordiamo con questa intervista con Glenda Cinquegrana pubblicata originariamemte in due parti il 19 e 21 ottobre 2011 su Globalist.it.

Glenda Cinquegrana: Partiamo dal passato. Negli anni Settanta c’era il reportage, poi negli anni Ottanta nasce la fotografia di paesaggio.

Gabriele Basilico: In quegli anni Ottanta il mio interesse si concentrava sulla forma dello spazio, come se questa potesse rappresentare la forma del vivere. Questo costituiva un credo forte nel mio lavoro di quegli anni. Mi pongo di fronte alla città come un anatomo-patologo: se guardo il corpo di una persona cerco di capire qual è la sua vita a, come si muove, che cosa mangia e chi frequenta. Lo stesso accade quando guardo alla città: se l’abito fa il monaco, la morfologia del territorio crea i luoghi e le persone che li abitano. Ma resterei fuor di metafora: l’anatomo-patologo osserva i cadaveri..

Quali sono stati i riferimenti del lavoro di quegli anni?

In quel periodo che precede l’esplosione della fotografia della scuola di Düsseldorf, sento che la mia formazione come fotografo è stata influenzata non tanto dalla frequentazione delle mostre, quanto dalla lettura dei libri di fotografia. In quel momento acquistavo negli Stati Uniti diversi libri che in Italia non arrivavano.

Quali autori stranieri ti interessavano?

Il primo riferimento di forte importanza per mio lavoro è stato un fotografo conosciuto in quegli anni attraverso i libri: mi riferisco a William Klein. William Klein aveva realizzato alcuni anni prima quattro libri celebri dedicati alle città, di cui uno su New York, uno su Mosca, un altro su Tokyo, e infine su Roma. Erano quattro libri impaginati da lui, con fotografie apparentemente sgrammaticate, molto nere, molto forti, nelle quali l’obiettivo era molto vicino al soggetto. Queste opere mi apparivano straordinarie. Nessuno di noi fotografi aveva visto niente di simile in quegli anni. Con il ‘noi’ non mi riferisco solo ai fotografi della mia generazione, che erano esordienti negli anni Settanta, ma anche a coloro che consideravamo i nostri maestri, ossia Gianni Berengo Gardin e Ugo Mulas. Anche loro subirono certamente la stessa suggestione. Personalmente lo notavo nei loro lavori, ma anche negli obiettivi che usavano. Me ne accorgevo, poi, quando noi fotografi ci trovavamo sul campo, e noi giovani avevamo finalmente l’occasione di osservare come i maestri si comportavano fisicamente: i maestri di quegli anni avevano la tendenza ad avvicinarsi molto ai soggetti. Non si faceva molto lavoro a cavalletto in quel periodo, ma si usavano macchine leggere come le Nikon, le Leica. Questo derivava dall’influenza che aveva avuto su di noi il lavoro di William Klein.

Dopodichè sono arrivati i Becher.

Sì. Le immagini dei Becher esposte alla galleria di Marco Valsecchi in via Santa Marta a Milano nel 1976 mi hanno come risvegliato da un sonno: hanno completamente cambiato la mia vita. In quella mostra ricordo mi colpì moltissimo quella serie di oggetti industriali tutti in fila in un catalogo, veri e propri ritratti frontali di oggetti allineati come fossero un esercito.

Qual era l’aspetto che più ti colpiva di quelle foto? L’isolamento, l’oggettualità delle architetture?

Sì. Innanzitutto l’oggettualità, il senso dell’isolamento. Il lavoro era ‘archeologico’, poiché che si trattava di oggetti in disuso, quindi abbandonati. C’era un senso di solitudine; ma l’atto di raccoglierli tutti, incasellati come in un ossario, dava loro un senso di collettività. La catalogazione nel lavoro dei Becher per me è un elemento fondamentale della mia poetica. Una delle cose che mi ha influenzato maggiormente è il senso dell’infinito, ovvero l’ossessione che si percepiva, nel lavoro dei due fotografi, di non riuscire a chiudere la serie. Questa cosa per me è stata fortissima.

Da qui nasce il lavoro sulle fabbriche di Milano.

E’ vero. Anche quel lavoro sulle fabbriche è animato dallo stesso desiderio di non finire mai. Mi muovevo nella città fra ispirazione e follia, e guidato dal senso del possesso della città. Alla base di quell’ossessione di fotografare tutto si trova l’illusione che tu possa diventare una parte della città, e che al tempo stesso la città possa diventare qualcosa di privato, qualcosa di tuo. Era come un desiderio di metabolizzare la città: di restituirla, vomitandola, e al tempo stesso di ricomporla in modo preciso, per mezzo delle fotografie che rispecchiano un ordine definito.

Nel tempo percepisci un’evoluzione stilistica nel tuo lavoro? Ad esempio, nel lavoro degli anni Ottanta più minimalismo, e negli anni successivi maggiore libertà di narrazione?

Sulla narrazione ho delle riserve. A me piace raccontare, ma riesco a farlo attraverso la costruzione di un libro. Appartengo a quella categoria di fotografi che hanno sviluppato la propria storia e i propri miti attraverso i libri. Un libro rappresenta un progetto: ha una stampa, una sequenza di immagini, ed un modo di essere che deriva dall’atto di sfogliare le pagine e, quindi, un suo modo di tenere un ritmo. In un libro è lo sviluppo narrativo della sequenza delle immagini che racconta il tuo lavoro. Ancora oggi nell’esercizio della fotografia riesco a pensare alla narrazione solo all’interno dello processo di creazione di un libro.

Gabriele Basilico, Istanbul
Gabriele Basilico, Istanbul

G.C: Parliamo ora dello stile documentario come scelta di poetica: come mai questo costituiva un’efficace scelta di metodo di approccio alla realtà del tempo?

G.B.: A partire dagli anni Ottanta in avanti, il paesaggio ha cominciato a costituire oggetto di interesse per il lavoro dei fotografi, dall’America all’Italia. Mi riferisco, ad esempio, al progetto di Viaggio in Italia curato da Luigi Ghirri, che includeva tutti i fotografi di quella generazione. Questo interesse per il paesaggio nasceva da particolari condizioni storiche e sociali: in quel periodo le città stavano cambiando, e si registrava il passaggio dall’epoca della fine dell’era industriale verso quella post-moderna. Per i politici, per gli urbanisti e per coloro che si occupavano della forma del territorio era difficile capire il presente ed immaginare il futuro. In quel contesto, la fotografia, grazie al suo potere di rappresentazione e di figurazione poetica, da semplice mezzo di misurazione dello spazio, è diventata lo strumento per guardare al paesaggio da angolazioni diverse: uno strumento con cui specchiarsi, per non cadere nel cul de sac della difficoltà di immaginare il mondo. Da quel momento in poi c’è stato un forte esercizio del ritratto dei luoghi, e la grande tradizione dello stile documentario è diventata uno strumento efficace laddove questo permetteva di avere da un lato la precisione di racconto, ma dall’altro di raccontare cose che appartengono all’intimità di chi guarda. Io ed altri fotografi ci siamo sentiti investiti di una cultura della tradizione e abbiamo continuato questa poetica con fedeltà di scrittura.

Con l’avvento della post-modernità come è cambiato, o sta cambiando il modo di rapportarsi del fotografo con la realtà che ci circonda?

Il paesaggio costituisce ancora nella cultura egemone il riferimento di interesse e la fonte dei contenuti della fotografia. L’era della cultura digitale, con la sua visione del luogo visibile e accessibile a tutti e da ogni luogo, ha ridotto gli spazi di utilità della fotografia documentaria. Il fotografo oggi tende a vivere la sua esperienza ai margini del campo visivo e a raccontare il suo punto di vista fra i tanti possibili, senza ricercare quadri di riferimento.

Se il fotografo è privato della missione di mappatura del territorio, e di ricostruire un’immagine del mondo secondo un proprio sistema di riferimento e di metodo, cosa può fare? Quale può essere il ruolo del fotografo oggi nella realtà contemporanea?

L’era del digitale ha aperto territori ben più ampi di quello che si poteva prevedere a quegli artisti che usano la fotografia quale strumento di intervento e di riflessione sulle caratteristiche proprie del linguaggio della cultura digitale.

Qual è la tua risposta personale a questo cambiamento di paradigma?

Personalmente ritengo che finchè le immagini di paesaggio sono ancora in grado di costruire un triangolo emotivo e concettuale fra i luoghi, chi le scatta, e chi le guarda, la fotografia documentaria, intesa come metodo di ancoraggio alla realtà, sarà una valida risposta.

Gabriele Basilico, il genio del bianco e nero, si è spento all’età di 69 anni.

Il genio di David LaChapelle in mostra a Lucca

Originariamente pubblicato su Globalist.it.

David LaChapelle, Angelina Jolie: Lusty Spring, 2001
David LaChapelle Angelina Jolie: Lusty Spring, 2001 C-Print, 127 x 152,4 cm © David LaChapelle, Courtesy of Fred Torres Collaborations, New York

Eccessivo, ridondante; ma anche geniale, visionario, surrealista. Ossessionato dalla cultura pop, marca espressiva di tutta la cultura contemporanea, come dalla perfezione estetica, che ricrea entrambe negli scenari apparecchiati ad hoc, nei quali la visione d’insieme si scompone nella cura maniacale per i dettagli, in un barocchismo linguistico – visivo che o si ama o si odia.

LaChapelle non è un fotografo da mezze misure. Ben oltre la fotografia di moda e i suoi clichès, che pure ha ampiamente praticato nelle numerosissime collaborazioni con riviste come GQ, Vanity Fair, Vogue, Homme, Rolling Stones, la sua è vera e propria arte dell’immagine, che vive nello spazio limite che l’artista apre fra banalità dello stereotipo pop e genialità dell’invenzione ironica e surreale. Non a caso ha esordito negli anni Ottanta grazie al padrino dell’arte pop all’apice della sua visione commerciale quale era il grande Andy Warhol.

Piaccia o non piaccia, David LaChapelle è uno dei più celebri fotografi contemporanei.

Lo potete vedere a L.U.C.C.A. Center for Contemporary Art fino al 4 novembre 2012 in una mostra che raccoglie ben 53 scatti, scelti fra i principali nuclei tematici della sua produzione, raccontata in 10 serie, fra cui Star System, Deluge (Awakened), EarthLaughs in Flowers, After the Pop, Destruction and Disaster, Excess, Plastic People, Dream evokes Surrealism, Art References e Negative Currency.

Anche se oggi la sua produzione fotografica si è fatta più impegnata – secondo lo spirito dei tempi – e più raffinata – in un abile gioco di riferimenti alla cultura classica – la sua produzione più interessante si ritrova nei ritratti delle celebrities. In queste opere la verità dei personaggi si fa funzionale ad una visione che spesso va oltre il limite della spregiudicatezza e della provocazione, e tocca momenti di invenzione geniale.

L’insegnamento di Bill Viola ai giovani artisti

Originariamente pubblicato su PadPad.eu.

BILL VIOLA, "Dissolution", 2005
BILL VIOLA, “Dissolution”, 2005. Color video diptych on plasma displays mounted vertically on wall 82 X 48 X 4 1/4 inches Edition of 7 Photo: Kira Perov

Bill Viola è uno dei più grandi artisti contemporanei. Le sue opere video, oggi nei maggiori musei del mondo, rispecchiano una visione intrisa di spiritualità profonda, accompagnata dalla grandissima abilità tecnica nella difficile pratica della videoarte. Lo abbiamo ascoltato parlare in una lecture che l’Università Bocconi gli aveva riservato in occasione dell’apertura della grande mostra antologica che Villa Panza gli dedica fino al prossimo 28 ottobre. Parlando di fronte ad un’aula gremita di studenti, l’artista americano si è soffermato a spiegare il significato dell’essere artisti. Abbiamo riportato alcuni tratti salienti di questa conferenza, in cui racconta il difficile compito degli artisti, offrendo una lezione antitetica rispetto a quella che ci hanno proposto in questi anni nomi di successo come Damien Hirst e i suoi numerosi imitatori.

La vita è un dono e l’arte è imparare a donare e a ricevere.

In questa conferenza non parlerò di mercato dell’arte, né di questo momento particolare in cui l’arte vale centinaia di milioni di dollari, a causa del modo in cui il sistema economico si è costituito, fino al punto in cui l’arte volta le spalle agli stessi artisti che l’hanno creata. In questa conferenza voglio parlare in modo particolare agli studenti, poiché il momento in cui siete, ovvero all’inizio della vostra vita nel mondo, e’ molto importante, anche se queste mie parole non sono destinate solo ai giovani, ma a tutti gli artisti di tutte le età, dai venti agli ottanta anni. Come studenti vorrei che innanzitutto foste consapevoli che dentro di voi abita un dono, e che vivrete in compagnia di esso per tutta la vostra vita: questo vi darà ispirazione, vi aiuterà, e se non lo tratterete nel modo giusto vi farà del male. Altra cosa importante su cui vorrei soffermarmi è questa: il principio del dono è una delle condizioni fondanti di tutto quello che siamo come uomini. Ogni persona che voi incontrerete nel corso della vostra vita, e la stessa ragione per cui siamo qui adesso, è che qualcuno ci ha dato un aiuto nel passato. Sono qui oggi e posso fare un gesto semplice come il mettermi gli occhiali, soltanto perché mia madre mi ha insegnato a nutrirmi quando ero un neonato. Per questo motivo dovrete imparare ad essere molto attenti quando qualcuno vuole darvi qualcosa, perché le condizioni per ricevere un dono non si verificano sempre.

La missione dell’artista: portatore di una visione dell’umanità.

La ragione più semplice su cui si basa il mio successo come artista è nell’uso che ho fatto non tanto della testa ma del cuore. Il cuore conosce la differenza fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; il cuore ci insegna a distinguere ciò che è bene e ciò che è male. Fate attenzione ad ascoltarlo e a sentirlo. L’arte non è un gioco in cui è importante chi riesce ad essere l’artista più furbo, più innovativo, disturbante, più ricco e di successo: questo ha a che fare con i prodotti del mercato, ma non con il fare arte. L’arte è qualcosa che ha che fare con l’essere onesti e profondamente autentici di fronte a se stessi. Quando nessun altro vi guarda, voi fate il vostro compito in nome di una guida che è qui, (e fa cenno a cuore ndr) e che è al di sopra di voi (alza gli occhi al cielo ndr).

E poi mi rivolgo ancora una volta soprattutto ai giovani quando dico che la prima condizione per fare arte è la consapevolezza che questa è una pratica dotata di una grande serietà, e che ha una storia molto lunga. Alcune guerre sono state combattute sulle immagini, alcune persone sono morte su di esse, altre sono state salvate grazie alle immagini. Come artisti dovete essere consapevoli del vivere in un momento particolare dei nostri tempi e che per questo siete destinati ad essere portatori di una visione: voi sarete i portatori di una visione dell’umanità, funzione dell’artista che risale agli inizi della civiltà umana.

Le cose vengono tutte dall’essere profondamente voi stessi in un punto particolare del momento storico in cui siete e dal vostro essere senza protezioni a più livelli di fronte al presente: è da qui che vengono i capolavori. I capolavori non vengono mai fuori da un’idea furba, ma trovano la loro base nella lotta, nel dolore, nella fatica del provare e riprovare di nuovo, fino a quando l’opera non funziona. Al termine di questo processo difficile qualcosa viene fuori, e molto spesso tu stesso non sai neppure da dove viene quello che hai realizzato.

Parole di Bill Viola, testo riportato e tradotto da Glenda Cinquegrana

Marlene Dumas a Milano: una mostra poco riuscita

Pubblicato originariamente su Globalist.ch.

Marlene Dumas, 2011, Ecce Homo
Marlene Dumas, 2011, Ecce Homo, olio su tela, 200x 100, courtesy collezione privata

Al Palazzo delle Stelline a Milano sono in mostra, dal 13 marzo al 17 giugno 2012, una quindicina di opere dell’artista sudafricana Marlene Dumas: l’esposizione comprende nuclei di opere della sua produzione più recente, di cui alcune appositamente realizzate per lo spazio dell’ex collegio delle orfane delle Stelline, altre tratte dalla mostra londinese intitolata Forsaken e altre che sono ispirate a personaggi che per l’artista incarnano l’identità italiana, fra cui Pierpaolo Pasolini, e l’Anna Magnani di Mamma Roma. Nella mostra l’artista, distaccandosi dall’erotismo declinato al femminile che ha caratterizzato la sua produzione più celebre e richiesta, approfondisce il tema della sofferenza e dei destini ad essa legati, sintetizzati nell’immagine iconica del Cristo Crocifisso.

Il talento dell’artista olandese è innegabile ed evidente nella capacità di dipingere con pennellate sottili, che ricordano quasi più la tempera che l’olio vero e proprio, in i cui pochi tratti, di matrice espressionista, riescono a riassumere tutti i caratteri di una scena o di un personaggio, accostando colori opposti o complementari con grande abilità e destrezza. In queste opere il lavoro pittorico è costruito nel contrasto fra i colori scuri, bitumosi, e le trasparenze sottilissime, dove il colore persegue il raggiungimento di una fortissima sintesi espressiva.

Eppure la mostra, che è incentrata su nuclei diversi, appare disorganica e priva di un centro concettuale forte, concepita come è tramite l’accostamento di gruppi di opere diverse, in cui spiccano alcuni momenti pittorici felici sul progetto visto nella sua globalità: soprattutto i ritratti di piccolo formato, e il nucleo della opere tratte da una serie di immagini dell’archivio dell’ex collegio delle orfane. Bello il piccolo dittico Three Night e Three Day, che rappresenta il chiostro delle Stelline di notte e di giorno, e le due pitture che tratteggiano due orfane in mantello nero, che si stagliano sul fondo fatto di pennellate grigie e scure.

Proseguendo lungo la mostra, il tema visivo del Cristo Crocifisso diventa grido ripetuto in modo ossessivo: il Cristo in croce, simbolo dell’abbandono al momento della morte dal Dio-padre, cui si ricollega il grido dell’Anna Magnani, è ripetuto tante volte da perdere di potenza semantica; le immagini dolenti della Winehouse, e quella di Etta James con la bocca dischiusa in un canto disperato, cui è vicino concettualmente il quadro che rappresenta due donne abbracciate in un gesto materno di dolore, sono espressione femminili della sofferenza forti, ma isolate; il volto di Pasolini e quello di sua madre, l’angelico ovale del viso del Cristo del Vangelo Secondo Matteo, sono sparsi nella mostra senza la costruzione di un gioco di rimandi sostanziali.

Grande l’artista, ma per goderne appieno aspettiamo la sua prossima mostra.

La Pietà araba di Aranda: immagine che ricorderemo

Originariamente pubblicato su PadPad.eu.

World Press Photo of the Year 2011, Samuel Aranda
Photo by Samuel Aranda: Fatima al-Qaws cradles her son Zayed (18), who is suffering from the effects of tear gas after participating in a street demonstration, in Sanaa, Yemen, on 15 October 2011.

Non sapremo mai chi è questa donna che culla un parente ferito, ma insieme diventano l’immagine vivente del coraggio delle persone comuni che hanno contribuito a creare un capitolo importante nella storia del Medio Oriente. Con queste parole il presidente della giuria del World Press Photo, Aidan Sullivan, ha giustificato la scelta della giuria di quest’anno di premiare la fotografia del giovane fotografo spagnolo Samuel Aranda.

L’immagine del fotoreporter non è altro che l’incarnazione, calata nel contesto del mondo arabo di oggi, della celebre posa della Pietà cristiana. La famosa immagine, cara all’iconografia dell’arte cristiana, da Michelangelo che ne fece la sua ossessione plastica, a Bellini, fino a Rubens e Ribera, è un soggetto fondamentale per decifrare l’arte antica cristiana. Ma non solo. E’ anche il soggetto iconografico ricorrente con cui suole confrontarsi molta arte contemporanea, in fotografia – basti pensare ai recenti scatti di Serrano – e nell’arte di performance: tutti ricordano la celebre azione di Marina Abramović, in cui l’artista abbracciava il corpo del compagno Ulay.

Un’immagine iconica prediletta dagli artisti perché simbolo di amore, di compassione, e incarnazione visiva suprema del dolore, di chi piange la morte di un una persona amata o di una fede amorosa in qualcuno, che poi è tragicamente finita. Dove il soggetto può tingersi anche di elementi politici qualora il Cristo assuma le vesti di un eroe vinto, portatore di una verità scomoda per l’autorità, affermata sino al costo di perdere la vita per essa. Entrambe le sfumature di significato si trovano nella foto di Samuel Aranda: il vinto è un ferito negli scontri con l’autorità rappresentata dal governo yemenita, caduto sotto i colpi della violenza bruta che questo applica per affermare una volontà cieca e tirannica. E una donna lo abbraccia in una vera e propria deposizione, consolandolo dalla sofferenza, e forse dalla morte che lo attende.

Dove lo scatto, è inutile precisarlo ancora una volta, non è il frutto di un set pensato dall’artista fotografo per raccontare una sua visione del mondo, ma scaturisce dell’abilità del reporter nel catturare l’immediatezza di un momento, raccolto nella realtà vera della rivoluzione yemenita. Dove la forza e l’efficacia comunicativa dello scatto di Aranda risiedono nella capacità di rappresentare la realtà attraverso lo strumento del topos visivo, che ha il potere supremo della facile intelligibilità, della fortissima fascinazione simbolica, e di lasciare una traccia nella memoria ben più lunga di qualunque altra immagine. Se la donna in questione, poi, porta il velo nero sugli occhi, questa caratteristica fa sì che essa venga immediatamente identificata come araba. Solo così una foto diventa un simbolo del dolore e del sacrificio del popolo arabo nel suo cammino di emancipazione. Solo così un’immagine è capace di fare il giro del mondo come ha fatto la foto vincitrice dell’anno scorso, il ritratto di Bibi Aisha, la ragazza cui era stato tagliato il naso dai talebani, o come l’indimenticabile foto del 1972 di Nick Ut della bambina vietnamita nuda in fuga dal napalm dei soldati americani.

Se poi, osserviamo la foto con attenzione notiamo che la sua forza risiede non solo nel potere documentario, ma nel suo punto di vista quasi definibile sottilmente artistico: il fotografo non solo è stato testimone di uno spaccato di realtà, ma non tralascia la sua personalissima visione. Che è cristiana, che ha l’occhio di un occidentale su una scena di umanità comune. In altre parole, attraverso uno sguardo che appare parziale, il fotografo – artista ci regala un’unica ed irripetibile immagine di Pietà Musulmana e di una madonna coperta di un velo nero. Sarà per questo motivo che ricorderemo per lungo tempo questa immagine come una grande opera d’arte.

Sex and the city: Mapplethorpe in mostra a Milano

Pubblicato originariamente su globalist.it.

Robert Mapplethorpe, Tulipani, 1987
Robert Mapplethorpe – Tulipani – 1987 – © Robert Mapplethorpe Foundation

Nella fotografia Robert Mapplethorpe perseguiva la ricerca della purezza estetica e il rigore formale. In altre parole la perfezione. Ovvero, tutto quello che non c’è nella vita reale. E in particolare nella sua, una vita vissuta nella New York trasgressiva degli anni Settanta e Ottanta, in cui l’arte coincideva con l’esistenza condotta lungo i limiti della sperimentazione sessuale e delle droghe, in un ambiente in cui si mischiavano artisti, musicisti ad attori teatrali, di film pornografici e di performance. E dove tutto accadeva su un palcoscenico creativo d’eccezione quale era quello della metropoli newyorchese fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, fucina creativa in cui convivevano i New Dada di Rauschenberg e Andy Warhol con la Factory, i Velvet Underground e i Talking Heads, la street-art in chiave pop di Keith Haring e quella in versione pittorica post-moderna di Jean-Michael Basquiat. Leggi tutto “Sex and the city: Mapplethorpe in mostra a Milano”

Il World Press Photo 2011 fra arte e attualità

Originariamente pubblicato su Globalist.it.

Chi non ha visto l’anno passato l’immagine di Bibi Aisha, la diciottenne afgana cui per la legge talebana è stato tagliato il naso dal marito per essere fuggita dalla casa dello sposo che la maltrattava? Una fotografia che, pubblicata sulla copertina del Time, ha incarnato la missione americana di esportare libertà e democrazia nel mondo. Quella foto, scattata dalla fotografa sudafricana Jodi Bieber ha vinto il World Press Photo 2011, il più prestigioso premio dedicato al fotogiornalismo internazionale di razza, ovvero quel giornalismo capace di rappresentare un problema, una situazione o evento di grande importanza giornalistica, e fa questo in un modo che dimostra un eccezionale livello di percezione visiva e creatività. Una giuria di esperti sceglie ogni anno un’immagine capace di sintetizzare una storia, di raccontare l’attualità attraverso la forza testimoniale dell’obiettivo fotografico. Dove la perspicuità dell’immagine è funzionale a mettere in atto una riflessione profonda sul mondo che viviamo. Un premio prestigioso che, nelle sue ultime edizioni, è sempre più in bilico fra giornalismo e arte.

In effetti a guardare le immagini dei fotografi vincitori, che sono in mostra fino al 4 gennaio 2012 al PAN di Napoli, viene da chiedersi dove sia il confine fra la fotografia d’arte e quella documentaria.

Se già nel 2009 aveva vinto una prospettiva vicina a quella artistica, con il conferimento del primo premio a Piero Masturzo e alle sue immagini dotate più di perfezione estetica che di immediatezza documentaria, quest’anno è forte fra i premiati la prospettiva del fotogiornalismo classico, quello il cui imprescindibile è l’intreccio fra rilevanza degli eventi e forza del racconto contenuto nell’immagine. Eppure il confine fra arte e documentazione, vuoi per i mezzi che spesso sono gli stessi, vuoi per la cultura fotografica ampiamente circolante, appare sempre più labile: nelle immagini dei cinquantacinque fotografi vincitori, racchiuse nelle nove sezioni, Vita quotidiana, Protagonisti dell’attualità, Spot News, Notizie generali, Natura, Storie d’attualità, Arte e Spettacolo, Ritratti e Sport, la sovrapposizione fra funzione documentaria e visione artistica è costante.

Ad esempio non possiamo non notare la prospettiva da genere classico del ritratto nelle immagini di Andrew McConnell, primo premio nella categoria ritratti. Questi, per documentare la situazione di vita del popolo Saharawi, in costante lotta per l’indipendenza dal Marocco nelle ultime colonie, mette i suoi protagonisti in posa statica nelle ultime postazioni nel deserto ala ricerca dell’armonia compositiva. La foto d’arte riecheggia nelle immagini di Amit Sha’al, primo premio per Arti e Spettacolo, e la sua scelta di raccontare la città di Israele che si avvale della sovrapposizione di foto d’archivio sulle location originarie. Nella serie intitolata Altneuland, uno scatto del Muro del Pianto nel 1967, perfettamente sovrapposto alla visione attuale, non puà non risentire della lezione concettuale del fotografo americano degli anni Sessanta Kenneth Josephson.

Se nel 2009 il primo premio per People in the News fu vinto da un giovane fotografo italiano, Piero Masturzo, – che per rappresenta la critica al regime in Iran, aveva catturato le urla delle donne sui tetti di una Teheran affascinante quanto magica e di notte e di stelle – quest’anno fra i premiati si trova un gruppo nutrito di fotografi nostrani: Fabio Cuttica, Davide Monteleone, Riccardo Venturi, Massimo Berruti, Marco Di Lauro, Ivo Saglietti, Daniele Tamagni, Stefano Unterthiner. Il più estetico è certamente il lavoro di Venturi, primo premio nella sezione Notizie Generali, che cattura un incendio in un antico mercato di Haiti post- terremoto, in un bianco e nero saturo e profondissimo che risente della tradizione della fotografia italiana d’arte sensibile ed evocativa – per capirci di un Mimmo Jodice. Interessanti, poi, sono le prove di Fabio Cuttica che documenta il genere del narco-cinema di serie B e Davide Monteleone che, nella sezione Arti e Spettacolo, si concentra sulla sfilata di Valeria Marini.

Nella categoria Ritratti troviamo i riferimenti più forti con la fotografia d’arte: negli scatti di Joost Van der Broek, la cui serie dedicata ai marinai cadetti sulle navi ex unione sovietica ricorda la fotografa d’arte Rineke Dijkstra; Martin Roemers propone ritratti di città in movimento, fra Calcutta Mumbai e Giacarta; fortissima e al tempo stesso intrisa di visione estetica, l’immagine di Ed Kashi di una bambina handicappata, deforme a causa dell’ agente arancio sparato dai soldati in Vietnam. Che poi ci possano essere dei suggerimenti interessanti anche per la stessa fotografia d’autore non è escluso: il premio accoglie anche alcune forme sperimentali di fotografia giornalistica. Nella categoria Attualità, infatti, una menzione speciale è conferita al lavoro presentato da Michael Wolf, intitolato Series of unfortunate events, in cui il fotografo ha realizzato scatti di immagini raccolte da google street view di incidenti in giro per il mondo.

Pipilotti Rist: Parasimpatico!

Originariamente pubblicato su Globalist.

Un occhio di formato gigante nell’atto meccanico di sbattere la palpebra: questa è una delle immagini che potrebbero sintetizzare il contenuto della mostra Parasimpatico, la personale dedicata a Pipilotti Rist dalla Fondazione Trussardi. Alloggiata nello spazio dell’ex Teatro Manzoni di Milano, riaperto per l’occasione, dell’artista svizzera la mostra raccoglie lavori vecchi e nuovi, offrendo una retrospettiva sulla sua opera, mai vista in Italia.

Pipilotti Rist dalla Fondazione Trussardi
Pipilotti Rist dalla Fondazione Trussardi

Se per Pipilotti Rist il compito dell’arte è di contribuire all’evoluzione, incoraggiare la mente, garantire una visione libera dai cambiamenti sociali, riunire energie positive, creare sensualità, riconciliare ragione e istinto, ricercare possibilità e distruggere i clichès, il video ne è lo strumento privilegiato, in virtù della capacità intrinseca di quel mezzo di racchiudere pittura, tecnologia, linguaggio, musica, movimento, stupidità, immagini fluttuanti, poesia, commozione, premonizione della morte, sesso e amichevolezza. E questo nelle opere di Pipilotti, appare assolutamente vero: i suoi video parlano di natura, di sesso, di femminilità, di angoscia, secondo un linguaggio che è più vicino a quello dei sogni e dell’inconscio che a quello razionale, e la cui comprensione passa per un sistema di pensiero che non è tanto logico, quanto intuitivo. Come Leibniz faceva riferimento all’appercezione, quale forma di percezione dotata di consapevolezza, caratteristica propria degli uomini rispetto agli animali, così lo spettatore ha l’impressione di percepire i contenuti delle opere della Rist secondo una forma di consapevolezza intuitiva. Come se l’arte di Pipilotti viaggiasse al livello di comprensione del nostro sistema nervoso. Quello appunto, Parasimpatico.

La mostra si apre con un’installazione-lume all’ingresso ed una macchina che produce le bolle di sapone ai piedi della scalinata; dalle opere oggettuali siamo immessi nello spazio del cinema e quindi, direttamente nella video arte di Pipilotti, ove l’allestimento sfrutta positivamente gli elementi caratteristici del teatro per fondersi con la video-arte dell’artista svizzera. Sullo scalone principale in doppio strato di immagini di un double channel video, collocato sue due livelli spazio-temporali consecutivi, si trova Lobe of The Lung, video il cui tema è il rapporto fra uomo natura. Lo spettatore si identifica con il punto di vista di Pepperminta, personaggio fiabesco alter ego dell’artista, mentre conduce un viaggio incantato nel paese delle meraviglie della Natura. L’esplorazione si trasforma ben presto in identificazione vera e propria, fino alla riconduzione allo stato naturale ferino.

A seguire nel foyer del Teatro si specchia la video proiezione di Sip My Ocean, un video in cui la Rist parla del tema del ricordo e della memoria personale, attraverso la metafora del fondo dell’oceano e degli oggetti che qui vi spargono, giocando con la telecamera sopra e sotto l’acqua, in immagini di grande incanto e fascinazione. Sul sottofondo la sua voce di cantante volutamente stonata e contorta intona le note ipnotiche della canzone Wicked game che, in un arrangiamento elementare, comunica la sensazione del viaggio sottomarino.

Infine, passando per le toilette, parimenti decorata di video, approdiamo alla sala principale, in cui si trova la celebre opera Open My Glade, proiettata a tutto schermo. Questa installazione, che in passato aveva trovato calzanti collocazioni facendosi episodio di arte urbana, – quando fu proiettata sui maxischermi di un grattacielo a Times Square – ritrova qui la sua froma di fruizione più tradizionale, quando è proiettata sullo schermo di un cinema. In questo video, – in cui, alludendo al sentimento di prigionia di una donna in un grattacielo, cita episodi di body art estrema, rappresentandosi come un animale in gabbia nel tentativo di forzare i limiti dello spazio del video in cui è costretta – la Rist costruisce una formula abilissima di narrativa ipnotica attraverso la musica, e l’assimilazione del suo viso deformato ad altrettante visioni astratte.

In una mostra in cui contenitore e contenuto sono ottimamente armonizzati, fra giocattoli e opere maestose, di Pipilotti c’è n’è abbastanza da innamorarsene.